La giornalista televisiva Lilli Gruber, già alla Rai dov’è stata speaker e inviata, poi deputata al parlamento europeo, oggi al canale La7 titolare di una rubrica di grande successo – Otto e ½ –, ha scritto un nuovo saggio-romanzo dedicato alla sua terra di origine, l’Alto Adige: “Inganno”; il libro fa seguito ad altri due precedenti, “Eredità” e “Tempesta”. Una saga famigliare e di storia sociale.
“Eredità” è il libro-romanzo che tocca le vicende di quella regione nel periodo della prima guerra mondiale, quando essa venne annessa all’Italia, vincitrice sugli Imperi centrali, perché si considerò italiana – almeno geograficamente – l’intera Valle dell’Adige, delimitata dallo spartiacque alpino. Il secondo libro – “Tempesta” – tratta gli anni del fascismo e della sua alleanza con il nazismo. L’epoca in cui l’Alto Adige o Sud Tirolo, o meglio gli altoatesini furono vessati dal regime, sottoposti a un’integrazione forzosa con la trasmigrazione nella regione di etnia e lingua tedesca (la regione dei masi e delle “casettine di montagna con i gerani fioriti sui balconi”) di italiani spesso provenienti dal nostro Meridione.
E poi, sul finire degli anni Trenta, le famose “opzioni”, cioè un quasi obbligo di scelta proposto agli abitanti che si consideravano sudtirolesi a tutti gli effetti di trasferirsi armi e bagagli in Austria e nei territori del Reich, dove sarebbero stati trionfalmente accolti con l’attribuzione di possedimenti simili a quelli tenuti in Italia: stesse estensioni di poderi, stesse case, addirittura uno stesso numero di mucche e di galline da allevare. Molti accettarono, altri no: rimasero a casa, coloro che Lilli Gruber ricorda come i Dableiber, letteralmente “quelli che restano lì”. Ma poi a casa, finita la seconda guerra mondiale con la sconfitta della Germania, del nazismo – e del fascismo –, tornarono (quasi tutti) gli altoatesini che avevano optato per il trasferimento.
Per capire o “entrare” nel terzo libro di Lilli Gruber – “Inganno” – bisognerebbe partire proprio da qui, perché questo romanzo (o saggio storico) parla delle vicende dell’Alto Adige dell’ultimo dopoguerra, dalla seconda metà degli anni Quaranta a oggi, o quanto meno alla fine degli anni Ottanta del Novecento e del concludersi della lenta e sofferta accettazione del “pacchetto” di integrazione e di tutela di autonomia che era stato firmato una decina di anni prima.
Sono dunque gli anni del partiti autonomisti e anche dei movimenti separatisti: la Südtiroler Volkspartei (SVP) o il Befreiungsausschuss Südtirol (BAS); gli anni del terrorismo; gli anni degli attentati e delle vittime. Lilli Gruber, nel suo saggio-romanzo, vi passa attraverso la storia di tre giovani: Peter, Max e Klara. I ragazzi (Max, grande amico di Peter, e Klara, di Innbruck, amata da Peter) sono figli della borghesia altoatesina. Diventato terroristi probabilmente in difesa o per la riconquista della loro Heimat, un termine che non ha un esatto corrispettivo italiano: è la patria del cuore, un mix di sentimento e di storia, di senso di appartenenza. Quindi, una “battaglia” esterna ma anche personale, interna al loro essere giovani e sudtirolesi. Non altoatesini.
Le azioni del terrorismo sono quelle più note, a cominciare dalla cosiddetta Notte dei Fuochi, tra l’11 e il 12 giugno del 1961, la notte in cui nel territorio altoatesino saltarono per aria minati dal tritolo decine di tralicci delle linee elettriche. Sarebbe dovuta essere una “guerra di tralicci”, forse nelle intenzioni degli inizi, ma nel volgere di qualche anno diventò una rivendicazione “terroristica” che ebbe le sue tragedie, i suoi morti: tra i civili, tra i rappresentanti delle istituzioni militari italiane presenti sul territorio (carabinieri, poliziotti e guardie di finanza), tra i soldati di leva che proprio a causa di queste azioni hanno sempre chiamato Tralicci i giovani, coetanei e no, dell’Alto Adige.
Nella storia, si inserisce anche un personaggio, un funzionario dei servizi italiani – Umberto –, probabilmente ispirato da personaggi reali, che dà al saggio-romanzo il taglio di una spiegazione storica e politica della vicenda altoatesina, inserita come una tesserina di un puzzle internazionale e di interessi più vasto, in quegli anni, della “guerra fredda” tra Usa e Urss. Sono i termini dell’ ”Inganno” di cui Peter, Max e Klara forse cadono prigionieri.
È una riflessione interessante, magari secondo il pensare di oggi politically correct. Ma risulta difficile dire quanto e con quali margini vicina al vero. Ed è qui che il saggio diventa romanzo e non viceversa, nonostante i tentativi anche stilistici di commistione.
È possibile che nella rivendicazione violenta di autonomismo altoatesino siano confluite visioni e interessi internazionali. Ma altrettanto bisognerebbe indagare su quanto pesò una certa quota di “difesa” etnica – quasi un razzismo al contrario – e soprattutto linguistica (un sempre vagheggiato pangermanesimo), e quanto l’adesione popolare e non invece l’immediatezza di neo-protagonismo, alla fine della guerra mondiale, di personaggi altoatesini (o sudtirolesi) che avevano combattuto volenterosamente nelle forze del Reich.
Anche la risposta che l’Italia, sin dagli inizi, diede al problema altoatesino – quando stava per diventare la nostra Irlanda del Nord – fu di corte vedute. Si puntò di più all’occupazione militare (mal consigliata?) che al dialogo. Basti pensare che nella sola città di Merano, capoluogo della Val Venosta, tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta si poteva contare la presenza di quattromila soldati in una città di quarantamila abitanti, per di più di etnia italiana ormai al 50 per cento. Cosa che non favoriva di certo un’accettabile integrazione.
E tuttavia quando alla metà degli anni Settanta si annunciò lo smantellamento (anzi, la cancellazione) della brigata alpina Orobica, che era stata istituita vent’anni prima, non ci furono reazioni positive e di soddisfazione dei meranesi che vedevano evaporare molti interessi commerciali.
L’autonomia provinciale e regionale, i benefici e i privilegi fiscali, le garanzie di tutela del bilinguismo – cioè gli interessi pratici – sono risultate infine essere le carte vincenti della risoluzione (certamente lenta e faticosa) del problema altoatesino, senza tanti voli pindarici. E anche un “modello” di soluzione di un problema.
Stupisce il fatto che oggi da parte dell’Austria si vada a rinfocolare la questione con un’annunciata, e ridicola, concessione di un doppio passaporto e dunque di cittadinanza ai cittadini altoatesini di etnia tedesca (quando è noto che nei censimenti anche molti cittadini di etnia italiana dichiarino di essere tedeschi per trarne vantaggi… ). La piccata risposta dello Stato italiano a questa eventualità potrebbe essere sostenuta con un chiarimento riguardo i benefici economici oggi offerti sul territorio, e che agli eventuali accettanti potrebbero essere sostituiti da benefici (politici se non più geografici) coperti dall’Austria invece che dall’Italia. Sarebbe curioso rilevare le accettazioni nel nome della famosa Heimat; e anche esaminare le “rinunce”, dinanzi a un mondo che, nonostante tutto, cambia e va avanti, diventa esso stesso una Heimat in cui è necessario trovare la dignità del vivere.
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