Carlo Calenda non sbaglia quando consiglia al Pd di prendersi uno psichiatra come leader. Sarebbe l’unica figura in grado di capire da che cosa/dove origina la voglia matta di perdere del partito. Era il maggiore d’Italia, aveva il presidente del Consiglio, forti truppe parlamentari, il governo di quasi tutte le regioni, un esercito di sindaci nelle grandi, medie, piccole città. Sta riuscendo a distruggere progressivamente l’imponente patrimonio dopo aver commesso una serie che pareva impossibile d’errori. E soprattutto -tramite l’azione ripetuta d’irriducibili minoranze- s’è adoperato per sabotare chi, scelto da milioni di elettori alle primarie, ricopriva il ruolo di segretario. Salvini e Di Maio, ultimi beneficiari della strategia suicida, ringraziano. Mentre loro volano con in poppa il vento del consenso, il Pd si lambicca in lungaggini burocratiche alla ricerca d’una nuova guida, proseguendo la mortifera guerra correntizia che ne ha decretato una fila di sconfitte alle urne.
Tutti ricorderanno, tanto per fare un esempio a sostegno della tesi di Calenda, in che modo si comportarono i Democratici all’epoca del referendum costituzionale. Decisa a maggioranza la linea da seguire, l’opposizione si rifiutò di sostenerla pubblicamente, e fece -ecco il caso clinico- una feroce campagna contro Renzi, riuscendo ad essere più efficace di Cinquestelle, Forza Italia e Lega messi insieme. Certo, l’allora premier ci mise del suo a procurarsi la disfatta, personalizzando sciaguratamente la consultazione. Ma se il partito, esaurito il legittimo dibattito interno, fosse stato compatto a difendere la scelta, forse il rovescio non sarebbe maturato. O lo sarebbe stato in termini meno crudi.
Il brillante risultato finale dell’opus magnum si è tradotto nel formidabile successo del 4 marzo conquistato da Di Maio. E nell’ottima performance ottenuta da Salvini. Se i due populismi, di sinistra e di destra, oggi sono al potere, lo debbono, oltre che al proprio merito (aver saputo intercettare rabbie e malumori degl’italiani), al demerito del Pd (l’insistere nel suo pervicace antirenzismo). Siccome la situazione non cambia, le accidie resistono, i personalismi ìmperano; e siccome quella di Calenda è solo una provocazione buttata lì per esprimere lo sconforto in presenza di un’inarrestabile deriva, forse sarebbe (è) il caso di prendere atto che il partito chiamato Pd non esiste più. E sarebbe (è) bene che la sua storia finisca qui, favorendo l’apertura di altre.
Appare evidente la necessità di costruire una nuova forza che sia -non adesso, ma in un futuro augurabilmente non troppo lontano- in grado di fronteggiare i Cinquestelle che cercheranno di riempire ancor di più il serbatoio con voti di sinistra, e la Lega, che si comporterà nella stessa maniera nell’area della destra. Senza un partito di idee liberali, riformiste, europee; senza un movimento di radici popolari e però non estremiste; senza un capo diverso dai capi e capetti che si sono succeduti nelle ultime stagioni politiche, l’opportunità di dar voce all’Italia che non si riconosce in chi oggi la comanda verrà sprecata. E il vulnus alla democrazia procurerà conseguenze pericolose, se non drammatiche.
You must be logged in to post a comment Login