L’estate sta finendo portandosi dietro il pesante bagaglio di tragici eventi che hanno segnato i due mesi passati.
Mi ha colpito in particolare la vicenda dei ragazzi thailandesi rinchiusi nella profondità delle grotte per un tempo interminabile, dal 23 giugno al 10 luglio. Giorni in cui siamo rimasti con il fiato sospeso al pensiero di una tragedia che sembrava doversi consumare nel buio della prigione naturale dentro cui stavano 12 ragazzi e il loro istruttore.
Inaspettatamente l’epilogo è stato positivo. Tutto il mondo, davvero “tutto”, era stato scosso da questo avvenimento.
Anch’io ho seguito ora per ora gli aggiornamenti sui tentativi di salvataggio, provando angoscia all’idea della morte incombente sui ragazzi, trovando insopportabile il pensiero di quelle giovani vite in estremo pericolo, riflettendo sulla superficialità, ai limiti dell’incoscienza, dell’istruttore che li aveva condotti in una tale trappola.
Quando i ragazzi sono finalmente riemersi alla luce e hanno potuto salutare e ringraziare pubblicamente il mondo intero che aveva condiviso il loro dramma, mi si è materializzata una riflessione sullo straordinario afflato manifestato nei loro confronti dalla comunità mondiale.
È riapparsa prepotente l’immagine del piccolo Aylan Kurdi.
In quella foto divenuta virale il piccolo giaceva senza vita, a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro, piegati all’altezza della vita. Riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, il bambino di tre anni era morto fuggendo dalla guerra, insieme ad altre 11 persone, tra cui il fratello maggiore, che di anni ne aveva 5, e la madre.
Quell’immagine è rimbalzata sulle prime pagine dei principali giornali del mondo.
La foto di Aylan ce l’ha “regalata” la coraggiosa reporter turca Nilufer Demir, perché il mondo vedesse e giudicasse. Ha addirittura sostenuto di essere nata solo per poter svolgere il compito di mostrare l’orrore di quella morte innocente.
Il direttore esecutivo dell’Unicef, Anthony Lake, aveva affermato che “Non è sufficiente che il mondo rimanga scioccato, lo choc deve essere accompagnato da un’azione. La situazione in cui si trovano questi bambini non è una loro scelta, né è sotto il loro controllo. Hanno bisogno di protezione, e hanno diritto alla protezione”.
Non è l’unica immagine delle tante tragedie che hanno avuto per protagonisti i bambini.
Ma l’impatto mediatico di eventi del genere cambia a seconda dei soggetti coinvolti.
Un conto è provare forti emozioni di fronte a una situazione, pure drammatica, che coinvolge ragazzi sportivi, belli e forti, partecipi di un mondo benestante. Diverso è incontrare gli sguardi, anche solo virtuali, di bambini migranti, malvestiti, disperati e in balia della sorte, alla ricerca di un approdo qualunque per la sopravvivenza.
I primi, che appartengono al nostro mondo, non ci chiedono niente di più che un’adesione emotiva, sempre pronta a scattare in situazioni del genere.
Gli altri, i migranti, invece ci costringono a rileggere pagine di storia che non avremmo più voglia di sfogliare: pretendono un posto nel nostro mondo e uno spazio nel nostro quotidiano.
Un pugno nello stomaco mi è arrivato con le parole di Alberto Zanobini, direttore generale dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze.
Che cosa hanno di diverso i ragazzi thailandesi, bloccati da giorni nelle grotte, rispetto ai migranti che vagano nei gommoni in attesa, anche loro, di essere salvati? chiede dalle pagine di un quotidiano nazionale.
Poi aggiunge, tra altre considerazioni “Non siamo forse padri e madri anche dei piccoli africani in fuga e disperatamente in cerca di accoglienza, allo stesso modo dei giovani thailandesi la cui vicenda ha mobilitato tutto il mondo per il loro salvataggio?”
Forse perché all’uscita dal tunnel ad aspettare i dodici ragazzi c’era una casa, con le madri e i padri pronti a riabbracciare i figli. Finita la pressione mediatica ognuno poteva tornare alla propria vita senza coinvolgere né le vite né le case degli altri. Invece i piccoli migranti si stanno avvicinando troppo alle nostre case e per questo li sentiamo minacciosi e pronti a sottrarci qualcosa.
Parole giuste, quelle del dottor Zanobini, medico che convive ogni giorno con il dolore fisico e psicologico dei suoi piccoli pazienti e delle loro famiglie.
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