Uno dei grandi temi della vita umana, se non il più grande, è il lavoro. Se in un passato ormai lontano veniva considerato quasi una condanna, l’uomo ha imparato a conoscerlo, a viverlo e ad amarlo, ad apprezzare gl’infiniti significati.
Nel lavoro c’è la fatica intesa come impegno e abnegazione, prassi capita e voluta, accolta e stimata nella sua sostanza etica e morale. La fatica oppone spesso rifiuti per un istinto primordiale, il corpo e la mente non amano infatti sottomettersi a sforzi che ne definiscano i limiti, preferiscono la poltrona o la scrivania, ma con il passare del tempo imparano che il valore di una conquista è incommensurabile e che tutto concorre alla comunione. La fatica del lavoro, se bene insegnata e gestita, diventa la chiave di volta di un’idea che finalmente prende corpo. Rifiutare la fatica reprime, per questo bisogna spiegarne e insegnarne il significato, la forza che sprigiona e le conquiste che sa generare.
Per capire il significato della fatica bisognerebbe avere conosciuto e vissuto anche indirettamente la civiltà contadina, quella in cui non esistevano orari e dove la maggior parte della fatica stessa era affidata alle braccia. Erano tempi in cui tra l’uomo e l’animale la distanza era minima, spesso la fatica dell’uno era di supporto a quella dell’altro, il tempo era dominato dalle bizze di una natura che concedeva e sottraeva, alimentava e sminuiva, per dimostrare che nello spirito che muove il mondo ciascuno mantiene viva la propria identità primaria.
La fatica è il prezzo che paghiamo per trovare l’ equilibrio. È così che i nostri genitori ci hanno insegnato l’educazione, facendoci capire che nulla arriva per caso, che tutto ha un prezzo da pagare non come una condanna, ma come passaggio per salire un gradino più in alto.
La fatica è un bene sulla tavola di tutti, anche di coloro che sembrano toccati da un’elitaria predestinazione. Non fa distinzioni, chiede impegno unanime, non fa promesse, dimostra sul campo che quella dell’impegno è la via più sicura per camminare senza il pericolo di incespicare e di cadere. Su alcune persone la fatica ha effetti laceranti, su altre funge da esplosivo, genera, produce, indirizza, scuote, aiuta a trovare la parte migliore, è un rassicurante regolatore di pressione.
C’è chi si piega alla fatica al punto di diventarne schiavo, non riuscendo più a capire quale sia la strada. In molti casi diventa divinità a cui immolare tutto, anche la libertà. Trovare un equilibrio non è facile, soprattutto quando l’amore diventa sudditanza e il rapporto incapace di generare scoperta, creatività, bellezza, sorpresa e interesse.
Il lavoro non è egoismo, ma convinzione di utilità, capacità di capire che ogni azione o pensiero ha vocazioni diverse ma convergenti: crescere e far crescere. Spesso si è portati a pensare che solo gli adulti debbano lavorare, escludendo quella parte che attende segnali positivi per cominciare a crescere, dimostrando che ognuno deve fare la propria parte, in relazione all’età, alla condizione e alla predisposizione umana e caratteriale. Insegnare ai giovani l’arte del lavoro, magari passando attraverso il gioco, può essere una delle vie per rimettere in campo tutte le forze, per creare armonia, unione, convergenza.
Il capitale umano va coltivato, amato e protetto, per questo bisogna aprire uno spazio ancora più ampio all’educazione, alla famiglia, alla scuola, bisogna investire sulla formazione e su tutto ciò che migliora il livello culturale, umano e sociale delle persone, soprattutto il lavoro. C’è stato un tempo in cui il lavoro veniva denigrato, vilipeso, disprezzato, ma la colpa era di chi lo sfruttava per sottomettere la condizione umana, impedendole di essere democraticamente partecipativa, attrice di una storia che la metteva in primo piano togliendole la libertà necessaria.
Il lavoro è il segreto di una rinascita, ma richiede attenzione, consapevolezza, impegno e soprattutto va insegnato, va fatto amare, riattivandolo nella sua sostanza etica. Si lavora non solo per un motivo di ordine economico, la forza e la bellezza del lavoro sta anche nella convinzione morale di chi lo insegna e di chi lo esercita.
C’è chi lo scopre strada facendo, magari in modo del tutto autonomo, ma abbisogna sempre di qualcuno che ne porti allo scoperto la parte meno visibile, quella che definisce la natura sociale e migliorativa del lavoro, la sua funzione ausiliaria e definitoria, la sua capacità di rigenerare e ricostruire, di aprire la cassaforte di una natura umana che troppo spesso viene lascia in balìa di una solitudine che non l’aiuta.
Si è sempre detto troppo poco sulla natura provvidenziale del lavoro, sulla sua capacità di rialzare, di rifondere, di rimettere in gioco gli affetti e le volontà. Il lavoro è dunque anche fatica, ma soprattutto acquisizione di consapevolezza, di autorità, di esercizio di professionalità e di garanzia, è l’antidoto a ogni forma di disagio sociale, è straordinario nella rinascita della natura umana, quando si trova incastrata nelle diatribe del mondo.
Di lavoro si parla troppo poco, c’è troppa poco disponibilità a sollecitarlo, a insegnarlo, a farlo decollare, spesso manca la volontà per farlo emergere, per consentirgli di vivere libero dagl’incastri e dai vincoli di una società che tende a confinarlo in uno stato di profonda depressione umana e morale.
Insegnare a fare fatica è l’unica via possibile per consentire a ciascuno di iniziare a scoprire qualcosa di più di se stesso e delle responsabilità che lo attendono. Una società è autenticamente democratica quando sa valorizzare il lavoro e la sua fatica, quando lo propone e lo sollecita, avendone ben chiari gli effetti rigenerativi.
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