Il governo Letta volle Carlo Cottarelli nel ruolo di Commissario straordinario per la revisione della spesa. Poco più di un anno dopo Renzi pose fine a questo tentativo. Quattro mesi fa un effimero ritorno. Al culmine delle snervanti manfrine pro electoribus precedenti il varo del grilloleghismo, Mattarella lo incaricò di formare un governo tecnico protempore. La mossa affrettò il concludersi del prevedibile accordo tra Salvini e i figuranti a cinque stelle.
Per molti Cottarelli è un mancato salvatore della patria o un leader possibile, per altri un pericolo: per tutti un predicatore nel deserto, tanto avvertito e lucido quanto privo di potere (pur avendo alle spalle, secondo l’assordante vulgata della galassia populista, una carriera tra i «poteri forti»).
In febbraio aveva pubblicato il suo manifesto politico, I sette peccati capitali dell’economia italiana. Vediamone, a titolo meramente divulgativo, i punti salienti.
Una lunga stagnazione caratterizza l’Italia dal lontano 1996. Il reddito medio pro capite è calato. Nell’ultimo decennio il Pil reale è sceso dell’8%. L’eccessivo disavanzo pubblico è un problema irrisolto. Il confronto con l’andamento economico dei maggiori paesi europei è impietoso.
Un dispositivo combinato di sei mali strutturali, incistatisi nel lungo periodo e mai seriamente contrastati con continuità dal succedersi dei governi (al di là di buoni intenti e di alcuni passi nella direzione giusta), associati a un settimo guasto di origini più recenti ma non meno grave, è alla radice di questo declino.
La diagnosi dei vari mali è nota; e note sono anche le possibili terapie. È mancato un medico; e il paziente seguita a dare prova di non voler guarire. L’assenza prolungata di terapie politiche sostenute da uno slancio riformatore ha trasformato i sette mali in altrettanti vizi.
Il più grave e vistoso è l’evasione. L’Italia è divisa tra chi non può evadere e chi può farlo e ne approfitta intenzionalmente. All’evasione (del fisco, dell’Iva, dei contributi sul lavoro ecc.) si associano l’elusione di chi profitta delle ambiguità delle norme e l’erosione di chi riceve privilegi in materia fiscale. La sola evasione arriverebbe a 130 miliardi. Il risultato è che alcuni pagano troppo, altri troppo poco. Chi non evade contribuisce con il 48% del proprio imponibile a determinare la fetta maggioritaria dei 733 miliardi di entrate di origine fiscale. Solo lo 0, 4% (una quota modesta, nonostante i rituali piagnistei demagogici) è destinato ai bilanci europei. Nei paesi Ocse la pressione fiscale media è attorno al 35%. Solo in Grecia e Malta si evade di più. In Italia un quarto del reddito tassabile è evaso. Ma non tutte le tasse sono evase in pari misura. Né tutti evadono in ugual modo: il lavoro autonomo evade il 70%.
Chi onora i propri doveri contribuisce alla crescita economica. In Italia il secolare deficit di senso civico e di fiducia nello Stato premia i comportamenti più biasimevoli. In un paese di piccole imprese e di lavoro autonomo si è radicato un rapporto perverso tra minori controlli, minori dimensioni aziendali, lavoro sommerso e atteggiamenti collusivi di dipendenti e fornitori. Costante è anche la sproporzione tra alti livelli nominali di tassazione e bassa probabilità di essere scoperti e sanzionati adeguatamente. Le maglie troppo larghe date dal sovrapporsi di compiti tra Agenzia delle entrate e Guardia di finanza si sono sommate ai danni prodotti da condoni, sanatorie e misure occasionali.
Questo saldo negativo si riflette in un cronico squilibrio tra entrate e uscite pari al 3% del Pil. La prima misura per limare lo squilibrio è ridurre l’evasione entro limiti accettabili. Se tutti pagassero le tasse avremmo conti più floridi e/o redditi monetari più alti e meglio distribuiti. La riduzione del debito favorisce la crescita, mentre l’evasione danneggia l’efficienza del sistema economico, la concorrenza, l’innovazione, la crescita di occupazione stabile e la legalità. Ma senza un adeguato «capitale sociale» (la fiducia e la lealtà condivise nei riguardi della comunità e delle istituzioni), senza interpreti politici capaci di suscitare uno scatto civile le cose potranno solo peggiorare. Per cambiare gli atteggiamenti serve una grande autorevolezza etico-politica.
Nel quinquennio 2013-2018 qualche misura di contrasto all’evasione è stata presa, ma i risultati d’insieme sono modesti e la tendenza non è stata invertita. Ad esempio, i fondi raccolti per il canone RAI sono stati male spesi. Altre misure si sono rivelate errate: l’incentivo della voluntary disclosure, il premio ai capitali rientrati dall’estero; la soppressione dell’Imu sulla prima casa; l’estensione del massimo contante spendibile; la rottamazione delle cartelle Equitalia. Nel contempo molte misure necessarie non sono state prese. Neppure l’alleanza tra le due destre radicali al governo sta andando nella direzione auspicabile; i rischi sono anzi maggiori.
Sono necessarie: la tracciabilità dei flussi monetari e grandi banche dati per potenziare i controlli; aliquote più semplici e fattualmente più eque e meno contraddittorie; la bonifica di tutti quei mercati protetti che, ad esempio, consentono all’idraulico di scaricare sul consumatore, mediante i prezzi dei servizi, il peso della fiscalità. In linea generale, si tratta di semplificare la struttura delle tassazioni secondo criteri equi, di finanziare il calo della pressione fiscale con razionalizzazioni e riduzioni della spesa e di bilanciare gli effetti indesiderati di breve periodo con quelli positivi di medio periodo. «Io credo che il rafforzamento dei conti pubblici debba essere perseguito soprattutto contenendo la crescita della spesa pubblica, il che aprirebbe la possibilità di utilizzare tutte le entrate derivanti dalla lotta all’evasione per ridurre le aliquote di tassazioni.
Gli sprechi, le distorsioni e l’inefficienza generate dalla corruzione e dall’eccesso di burocrazia aggravano il quadro. La mancanza e l’approssimazione dei dati, l’ambivalenza di alcune valutazioni e la contraddittorietà della percezione del fenomeno rendono difficile valutare l’impatto della corruzione.
Meno complesso è il giudizio. «La corruzione è più diffusa in Italia che nei principali paesi avanzati. Forse c’è meno piccola corruzione; ma ce n’è molta nelle grandi decisioni prese dalla pubblica amministrazione (appalti e forniture in particolare)». Gli apparati, centrali e periferici, non sono meno corrotti dei politici e spesso sono loro a dettare le forme e i limiti dell’azione legislativa. C’è più corruzione al Sud che al Nord. Lo scambio di favori è più oneroso delle cosiddette «mazzette». Prima di Tangentopoli la corruzione era gestita centralmente dai partiti; oggi è «più decentrata, più presente sul territorio, più caratterizzata da un legame stabile tra corrotto e corruttore». È più facile aggirare i controlli giudiziari, e istituti come la prescrizione danneggiano il contrasto alla corruzione. Ai danni economici vanno aggiunti i danni civili: la corruzione genera tra i cittadini sfiducia nello stato democratico a favore di radicalismi giustizialisti.
L’estensione dell’apparato burocratico, la complessità e farraginosità del sistema legislativo, il deficit combinato di misure dissuasive e preventive, l’indulgenza amorale e la rassegnazione sono i principali facilitatori della corruzione. Nonostante i passi in avanti compiuti a partire dalla legge Severino, gli apparati preventivi hanno dato risultati modesti. Per ridurre i rischi di corruzione occorre semplificare la pubblica amministrazione e depotenziare l’opaca ingerenza della burocrazia. Anche la repressione, dopo gli stop subiti dal 2002, ha fatto qualche passo in avanti (la ripenalizzazione del falso in bilancio, le norme antiriciclaggio, l’introduzione del reato di traffico di influenze), ma molto resta da fare, specie per colmare il divario tra le norme e la loro effettività e il gap tra i molti controlli e le scarse informazioni disponibili.
È possibile ridurre il numero dei burocrati e dei pubblici dipendenti; ma è ancor più urgente ridurre le leggi (due volte la Francia, cinque la Germania, otto il Regno Unito).
La pubblica amministrazione è impermeabile al merito, manca di incentivi adeguati, patisce un eccesso di norme e controlli, è frantumata e dispersiva e ha perciò un regime di bassa produttività rispetto ai bisogni di imprese, cittadini e altri apparati. I vertici della burocrazia (meglio pagati dei loro equivalenti francesi, tedeschi e britannici) hanno in pugno conoscenze e procedure, si tengono ben stretti i programmi (grandi o piccoli) che danno loro potere, e i politici finiscono per dipenderne. Essi generano le regole e ne sono a loro volta generati. Gli apparati provocano aggravi di costi e lungaggini per imprese e cittadini. Soprattutto, ostacolano la riforma della spesa pubblica e della tassazione, riducono l’efficienza dell’economia e scoraggiano gli investitori stranieri. Il mix tra eccesso di apparati e norme ed eccesso di individualismo e sfiducia nello stato (con l’illegalismo che ne deriva), è devastante.
Meno percepita nei suoi effetti perversi è la lentezza della giustizia, impennatasi dopo il 1985. Il numero dei procedimenti pendenti è in via di riduzione, ma non in Cassazione e non a causa di un più rapido smaltimento degli arretrati. Se vi è stata, la riduzione dei tempi riguarderebbe i primi due gradi di giudizio e non il terzo; e il distacco con i consueti paesi di confronto non è diminuito in modo significativo. Rilevanti sono anche i dati relativi ai territori: un procedimento di diritto del lavoro esige 220 giorni a Como, 280 in tutto il distretto di Milano, 514 a Varese, 1.371 nel distretto di Bari.
La lentezza non solo aumenta i costi della giustizia per i diretti interessati e per l’intera collettività; genera anche incertezza e scoraggiamento, perché i titolari di diritti legittimi sono in condizione di farsi valere con molta fatica. Vi è una stretta correlazione tra efficienza produttiva e efficacia giuridica. Il funzionamento della giustizia non dipende dalle risorse impegnate ma dai modi del loro impiego. Le carenze di organico dipendono dall’alto numero di contenziosi tipico dell’Italia. Ridurre il «tasso di litigiosità» non è semplice né immediato.
Nella scorsa legislatura e in quella precedente sono state prese utili misure in questa direzione, ma la distanza dai paesi più efficienti resta alta. Molto resta da fare per migliorare e incentivare l’efficienza e la produttività.
Vistosi e documentati ma sottostimati sono gli effetti del calo demografico. Siamo un paese di vecchi che seguita ad invecchiare. Si vive più a lungo, ma l’aumento dell’aspettativa di vita non comporta l’aumento della popolazione. La natalità è in calo da quasi mezzo secolo. La popolazione in età di lavoro è diminuita.
La decrescita sarebbe stata più forte in assenza dei fenomeni migratori, che ringiovaniscono la popolazione e sostengono il tasso di fertilità. Il combinarsi della crescente aspettativa di vita con il calo della natalità può avere effetti devastanti sui conti pubblici e sul tenore di vita degli anziani. Le riforme delle pensioni varate negli ultimi 25 anni hanno cercato di favorire l’accantonamento di risorse per far fronte alla vecchiaia e soprattutto di prolungare l’età del pensionamento.
Si è trattato di misure doverose (tra queste la legge Fornero, bersaglio di tutti i qualunquismi), ma ancora insufficienti per porre in sicurezza i conti pubblici e per realizzare una maggiore equità intergenerazionale. Potrebbe servire un aumento del numero di alunni per classe (non esistono evidenze che la minore dimensione delle classi migliori considerevolmente il rendimento degli alunni), ma nell’insieme le risorse drenate in Italia per l’istruzione pubblica sono in linea, o addirittura inferiori, rispetto ai paesi più avanzati. Più efficace sarebbe l’impopolare riduzione degli assegni pensionistici per chi ha goduto interamente del sistema retributivo (titolari destinati a sparire nell’arco di un ventennio).
Più pesanti sono le conseguenze in termini di riduzione fisiologica del Pil e di abbassamento della produttività di chi lavora. Le migrazioni in questo senso non sviluppano tutti i loro potenziali benefici perché gli immigrati vengono occupati in attività a bassa qualifica, a basso reddito e spesso irregolari.
Non si tratta di sopprimere le migrazioni, ma di gestirle in modo più ordinato e di migliorare l’impiego di queste risorse. L’integrazione è una necessità, se è vero che la popolazione di origine straniera (di prima, seconda e terza generazione) dovrebbe aggirarsi tra mezzo secolo attorno a un terzo dei residenti complessivi. La popolazione over65 salirebbe in un quarto di secolo dall’attuale 22% al 34%.
Queste previsioni però possono essere confutate dai fatti. Senza riforme opportune difficilmente la crescita del Pil sarà tale da far fronte a situazioni tanto onerose. Per modificare un quadro culturale e sociale che favorisce il calo demografico sono quanto mai opportune politiche di sostegno e di incentivo alla natalità quali quelle avviate in Svezia nell’ultimo ventennio.
L’impatto delle misure varate nella scorsa legislatura è stato praticamente nullo. Serve un approccio duraturo e non temporaneo, rivolto a tutti con servizi di alta qualità a basso costo per le famiglie. Ma il debito troppo alto inibisce a priori queste politiche.
L’annoso divario di reddito, produttività e occupazione tra Nord e Sud tende a perpetuarsi per le retroazioni tra i tre dislivelli (vi è un reddito più basso perché produttività e occupazione sono più basse, e così via). I divari sono aggravati dal basso grado di efficienza della pubblica amministrazione (specie nella sanità, nell’istruzione, nell’amministrazione della giustizia, nell’assistenza all’infanzia e nei temi ambientali), da quote di evasione e corruzione più alte e da un numero di dipendenti pubblici molto superiore ai bisogni effettivi.
Questa situazione moltiplica gli effetti negativi della sproporzione tra entrate pubbliche e distribuzione della spesa. Vanno valutati altri tre elementi relativi al Sud: la debolezza della fiducia nelle istituzioni, la minore qualità del sistema formativo, il tasso di denatalità più alto. Questa cronica situazione non può essere affrontata, come d’uso, con massicci trasferimenti di risorse finanziarie o con agevolazioni fiscali. Neppure il miglioramento della composizione della spesa pubblica a favore degli investimenti sembra un toccasana, specie se non si migliora contestualmente l’inefficienza nella gestione di tali investimenti. Occorre creare un clima favorevole agli investimenti privati.
Il primo passo dovrebbe consistere nel ribaltare il paradossale effetto delle parità salariali, l’uguaglianza che crea disuguaglianza: il lavoro è meno produttivo al Sud ma consente un maggiore potere d’acquisto. Un decentramento della contrattazione può servire. Soprattutto, non si tratta di agire sul consumo, ma sulla crescita della produttività, sull’efficienza (senza aggravio di costi) della pubblica amministrazione e sulla credibilità delle istituzioni: ricette ovvie, ma di non facile attuazione, soprattutto l’ultima.
Il settimo «peccato» riguarda la contingente difficoltà a convivere con l’euro. Naturalmente la moneta unica non è in discussione. La difficoltà nasce dalla scarsa adattabilità dell’economia italiana alle nuove regole che derivano dall’appartenenza all’Europa. Occorre recuperare il tempo perso, e non perderne ulteriormente. L’euro ha tolto all’Italia l’arma della svalutazione monetaria come strumento di competizione. Non serve rimpiangere il passato, né prendersela con i fattori esterni sfavorevoli, come i prezzi delle materie prime e la presenza di competitori agguerriti, né inveire contro la Bce, che ci ha più volte salvato. Le cause vanno viste nella crescita inerziale dei salari rispetto alla produttività; nel calo dei tassi di interesse, che ha minato gli investimenti e accresciuto la spesa; e nella crescita del debito durante il secondo governo Berlusconi. Come che sia, non è possibile uscire dall’euro per ridare competitività ai prodotti italiani e svalutare il debito senza suscitare un’iperinflazione, con i controproducenti contraccolpi sul mercato interno, sul potere d’acquisto e la qualità della vita.
Anche l’idea di stampare moneta o di introdurre una moneta parallela all’euro ha delle controindicazioni troppo forti, anche come potenziali turbolenze sociali. Le sole vie percorribili per recuperare competitività consistono in politiche, pubbliche e d’impresa, volte a innalzare e premiare la produttività, a ridurre il peso della tassazione sul lavoro a carico delle imprese e a risanare vigorosamente i conti pubblici.
Ma prima di ogni altra cosa occorre sbarazzarsi, per Cottarelli, di tre persistenti illusioni; che la crescita sia trainabile dal settore pubblico o da investimenti strutturali europei, e che il credito bancario possa sostenere la spesa privata. Serve un’azione riformatrice a tutto campo, che ripensi il ruolo dello stato nell’economia.
Detto tra noi, l’autoproclamato «governo del cambiamento» non solo non promette nulla di simile, ma annuncia ulteriori guasti associati all’elargizione a piene mani di molte patacche. Ma il popolo sembra non vedere, sedotto da un nuovo, vecchissimo oppio: la xenofobia e il razzismo.
You must be logged in to post a comment Login