Si sa, vincere le elezioni può essere più semplice rispetto al governare un Paese. Negli ultimi venti anni questo piccolo “principio politico” è stato più volte confermato. Non che nel passato questo non avveniva, tuttavia, nella prima repubblica il sistema era tale che, in maniera quasi naturale, vi erano dei meccanismi che impedivano il verificarsi di campagne elettorali permanenti a discapito, appunto, del governo.
Assumere questo aspetto non vuol dire procedere alla beatificazione della prima repubblica, ma, semplicemente, rimarcare come si sia fatta molta propaganda in passato per demolire la “Repubblica dei Partiti” e per delegittimare la sua classe politica, per poi cadere, forse, non solo in qualcosa di peggiore, ma anche di compromettente rispetto alla qualità della nostra democrazia.
Mi spiego meglio. Quella che è stata definita da Scoppola la “Repubblica dei Partiti” aveva in sé alcune condizioni di base non più riproponibili. Un sistema proporzionale, la centralità del Parlamento rispetto all’esecutivo, una instabilità stabile, le preferenze che consentivano di scegliere l’eletto ed infine una classe dirigente uscita da scuole di partito e non da talk show.
Se dovessi provare a sintetizzare e anche a banalizzare le ragioni della fine della prima Repubblica direi che questa ha cessato di esistere non per la caduta del muro di Berlino, ma perché si è passati da un sistema proporzionale ad uno tendenzialmente maggioritario e perché di fronte alla marea montante della paura della globalizzazione la classe dirigente politica non aveva saputo rinnovarsi per tempo pensando di essere perenne e ritenendo, a torto, di perpetuare il solo potere come elemento di consenso.
Così finì la DC perché obbligata a schierarsi con la destra o con la sinistra senza essere lei a poter dare le carte. Così finì anche il PCI consunto dalla sua incapacità a non sposare per tempo la socialdemocrazia in ragione di un comunismo europeo che comunque era ormai superato dalla storia.
A tutto questo poi vanno aggiunti gli effetti demolitori di tangentopoli e il tracimare del potere giudiziario rispetto agli altri poteri.
La seconda repubblica durata solo poco più di un ventennio è finita nel momento in cui, a fronte della consunzione fisica del proprietario del centrodestra Berlusconi, ha prevalso un nuovo modo di fare politica, populista capace non solo di fagocitare ciò che rimaneva di FI, ma anche di esprimersi in maniera egemone anche sull’altro fronte politico attraverso il dinamismo di un ossimoro (cinque stelle è destra e sinistra che convivono) fortemente impegnato nel contestare alle fondamenta la democrazia liberale e rappresentativa.
A questo poi si può aggiungere che il cambio di sistema elettorale ha dato il colpo di grazia perché ha reso obbligatorio abbandonare la vocazione maggioritaria a fronte di partiti che tuttavia si erano formati, costruiti e sviluppati su criteri appunto maggioritari e personali con prevalenza di leader carismatici e egemoni non per cultura, ma per capacità empatiche e comunicative.
Sempre cercando di dare una chiave interpretativa mi sento di proporre l’idea che tra la prima e la seconda repubblica per arrivare al momento attuale ci sia comunque un unico filo conduttore, un unico filo rosso che ha attraversato i momenti topici della nostra storia.
Se ricordiamo bene la fine della prima repubblica è stata accompagnata dalla comparsa e dal ruolo svolto da Umberto Bossi e dalla Lega Nord. Allora si suggeriva come chiave interpretativa che il “sindacalismo territoriale” della Lega intercettava la paura dei ceti produttivi e popolari di fronte al dubbio di non farcela a rimanere agganciati all’Europa a fronte di un sud irrimediabilmente fermo e incapace di rispondere alla sfida della globalizzazione. Non solo, altro elemento dirompente, il linguaggio assolutamente dirompente usato da Bossi nei confronti sia della politica sia degli elettori. Con Bossi la chiacchiera da bar è divenuta pensiero intellettuale e politico e ha conquistato le piazze virtuali e reso legittimo e dichiarabile ciò che prima era sottaciuto e evitato.
Così per venti e più anni abbiamo avuto non la costruzione di un sistema politico nuovo, ma la demolizione del vecchio. Abbiamo visto la sistematica volontà da parte di una certa dirigenza di rendere semplice ciò che era complesso e di rappresentare le soluzioni alla grave crisi del sistema Italia come alla portata di qualsiasi politica priva di duri sacrifici. Ma la paura genera paura e il rancore genera rancore sempre di più e sempre più estremo. Così, come c’è sempre qualcuno che abita più a nord di te, c’è sempre qualcuno che una volta avuto il là la dice più pesante di te.
E così non avendo risolto i problemi dell’Italia i rancori, l’odio, l’intolleranza verso la classe politica degli anni novanta si sono trasformati e sono arrivati sino a noi. Il fiume carsico si è ripresentato questa volta più forte di prima e più impetuoso.
Allora l’odio era verso un ceto politico incapace di leggere la realtà e distante dal bisogno di tutela che i primi venti di globalizzazione chiedevano. Oggi, il rancore e l’odio verso il ceto politico si è trasformato per effetto di assenza di risposte in qualcosa di più drammatico. L’incapacità di ripristinare la possibilità di percorrere la scala sociale, l’impossibilità di intravvedere un futuro migliore rispetto al presente ha prodotto il rancore verso tutto ciò che è percepito come classe dirigente, ceto politico o chiunque con responsabilità sia nel pubblico sia nel privato. E così dopo che Bossi ha aperto “le porte del bar”, non ci si poteva aspettare certo qualcuno di diverso da chi è andato più in là di lui nel rendere accettabile quello che prima era ancora inibito per paura di una pubblica condanna.
Salvini e Di Maio non sono altro che le facce della stessa medaglia. Sono gli interpreti di una stagione di “masanielli descamisados” continua, iniziata nei primi anni novanta dove il rancore non è stato battuto, ridimensionato, messo all’angolo da buone politiche, ma, invece gli sono stati dati ulteriori argomenti per alimentarsi e crescere e pervadere le coscienze divenute sempre più individuali e sempre meno capaci di una visione comunitaria. Grandi colpe ha il ceto politico, ma grandi colpe ha anche il centrosinistra del nostro Paese. Le ha perché ha perso le occasioni migliori per cambiare la storia dell’Italia. Li ha perché è stato incapace di fermare l’onda che da venti e più anni attraversa la nostra storia. Li ha perché non ha saputo costruire una barriera capace di impedire il crescere del rancore e non ha saputo frenare e mettere all’angolo i profeti di questa stagione di imbarbarimento.
Dunque che ci resta dopo la stagione del rancore? E’ possibile riprendere un cammino? Se ci pensiamo bene questo dovrebbe essere proprio il compito della politica.
Trovare le ragioni per produrre cambiamento. Forse è proprio da qui che il centrosinistra dovrebbe ripartire. Elaborare una idea perché rimetta in moto la scala sociale del Paese come antidoto proprio al rancore che avvelena i nostri pozzi.
Roberto Molinari, Direzione Provinciale PD Varese
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