Agriturismo in cascina, nel nulla verdeggiante di Toscana: armadi con tarli d’epoca, letti alti un metro, cuscini di piuma e sopra-federe. Dico davvero: federe che si mettono sopra le federe d’uso quotidiano, per ripararle dalla polvere o per le occasioni speciali in cui mostrare la stanza da letto agli ospiti. In realtà solo rettangoli ricamatissimi, da appoggiare sul cuscino, con un invito gentile : “Buon riposo”, tra fiorellini e ghirigori.
Avete indovinato, anch’io ne ho un paio di mia suocera, bello inamidato e nascosto sotto lenzuola stampate, per non farmi dire che la nostra casa è diventata un museo.
Ma com’erano belli i letti di una volta! Intanto il lettone era un assemblaggio di due lettini singoli (non si può mai dire!) accostati, con la testiera e la pediera, che non stavano mai perfettamente uniti perché costruiti uno per uno, non in serie. Al posto della rete ci stava il cassone o elastico che dir si voglia, una struttura di legno con tante molle trattenute da fasce di stoffa grezza, e un’imbottitura di paglia che si sbriciolava di continuo sotto il letto, a ogni salto che ci facevi sopra. Poi una materassina di crine (“per l’igiene” sentenziava mia nonna) e ancora un bel materasso di lana, che ogni due-tre anni andava disfatto, lavato in ogni sua parte, e ricucito dal materassaio con lana cardata di fresco e filo di spago. Un lavoro che si svolgeva in cortile, d’estate, o al più in un garage: e che buffi i materassi appena rifatti, gonfi come torte sfornate da poco, nei quali entrava l’ago spropositato per trapuntare batuffoli di lana qua e là, seguendo un’accurata geometria che rendesse morbido ma stabile l’appoggio. I primi giorni che ci si dormiva, sembrava di essere su una strada sassosa, altro che principessa del pisello!
Le lenzuola, bianche ovviamente, non potevano che essere ricamate. Da una filza sottile per quello sotto, a una fantasmagoria di foglie, fiori, pois, losanghe, inserti di pizzo, trafori, volute, e le immancabili cifre, per quelli di sopra: a punt’erba, punto pieno, punt’ombra, punto tunisi, punto lanciato, punto raso, punto quadro, doppia àjour, e chi più ne ha più ne metta.
Tralasciando l’eccentrico raso dannunziano, la stoffa era li cotone, ma occhio! Si andava dal madapolan, al rasatello, al misto lino, al ritorto e semi-ritorto, alla flanella, e per le culle a quel tessuto impalpabile che si usava anche per i camicini detto “pelle d’uovo”: nomi che imparavamo a scuola, in Economia Domestica, e sapevamo distinguere al tatto. Si usava poco, orami, la canapa, ma la nonna ne aveva un campione sopravvissuto, un lenzuolo grezzo, trama grossa, bianco sporco, cucito in tre teli, perché il telaio – casalingo – non aveva la larghezza adatta.
Sopra il lenzuolo, il canonico copriletto di piquet a disegni in rilievo, bianco naturalmente, coi bordi a uncinetto che sfioravano il pavimento; e magari un’imbottita di cotone per le sere più fresche, coperta che sapeva di muffa e più che scaldare soffocava noi bimbetti per il peso spropositato.
In tanto poetico biancore, una sola stonatura: il leggero persistente afrore che veniva dal comodino, ricettacolo discreto dell’indispensabile vaso da notte.
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