Per dirla con un esempio, troverei del tutto assurdo che un Generale contasse sulla lealtà degli Ufficiali appartenenti all’esercito nemico e non sulla dedizione dei propri uomini per portare a compimento i propri fini strategici. Ecco perché, quando il direttore di RMF mi ha chiesto che cosa ne pensassi dello spoil system – la pratica con la quale i dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare dei governi – sono stato tentato di compendiare la risposta in una sola frase: «Ne penso tutto il bene possibile!». I perché di questa entusiastica adesione al metodo dello spoil system sono più di uno e spero di riuscire a inquadrarli in poco spazio.
Tale metodo l’abbiamo appreso da una democrazia come quella degli Stati Uniti, dove la classe politica per tradizione storica non inclina ad indugiare sui sofismi filosofici ma, piuttosto, sulla valutazione dei risvolti pratici di certe scelte. Infatti, fin dal 1820, essa si è posta il problema del che cosa deve fare una forza politica una volta eletta dal popolo al governo del Paese, sulla scorta di determinati programmi. E dopo due secoli la risposta che ci viene d’oltre Atlantico è ancora la stessa: realizzare quegli stessi programmi con i quali ci si è presentati agli elettori!
Ed è proprio per poter realizzare i suoi programmi nell’arco di una legislatura che un governo appena eletto ha bisogno di comandanti, nocchieri e nostromi che siano motivati a fare andare la nave statale dove vuole l’armatore, in questo caso il governo, per evitare – come sarebbe accaduto in questi giorni – che una “manina” ministeriale inserisca numeri non concordati in una relazione tecnica del governo in carica.
D’altronde non è un mistero che in Italia i manager della pubblica amministrazione siano cooptati per appartenenza politica e non per competenze, pertanto è difficile trovare soggetti che scelti da un governo di sinistra, o viceversa, siano poi propensi a realizzare i progetti di un governo di segno opposto. Ecco dove nasce la necessità dello spoils system ad ogni cambio di governo, una pratica che tra l’altro è molto utile anche per armonizzare i rapporti tra la macchina amministrativa e la dirigenza politica ai fini del buon andamento di tutta la pubblica amministrazione, in sostanziale coerenza con gli articoli 95 e 97 della nostra Costituzione.
Coloro che adesso si dicono scandalizzati dal fatto che sia il vice premier Di Maio che il ministro dell’economia Giovanni Tria abbiano pubblicamente dichiarato di non gradire Tito Boeri alla presidenza dell’INPS per il fatto che «… non è minimamente in linea con le idee del governo», o hanno la memoria corta o sono in malafede. L’eventuale sostituzione di Boeri, giusta o sbagliata che sia, è una riconosciuta prerogativa del governo, e chi in questi giorni invoca l’intervento di Sergio Mattarella per chissà quali stravolgimenti della Costituzione, in proposito, non fa altro che mettere in imbarazzo l’inquilino del Quirinale. Infatti, lo spoil system italiano (malnato e malcresciuto in verità) era nelle corde di una legge che, dopo il referendum del 18 aprile 1993, introdusse il 75% di maggioritario a turno unico oltre al 25% di proporzionale alla camera. E il relatore di quella legge fu proprio l’attuale presidente della repubblica al quale oggi si rivolgono coloro che avversano lo spoil system.
Da più parti si sostiene che, nonostante Mussolini avesse irreggimentato e messo in orbace la macchina della pubblica amministrazione, non fosse riuscito neppure lui a farla funzionare con “amichevole criterio”, perché essa ha la capacità di autorigenerarsi per talea, come alcune piante. E il concime che favorisce queste talee è la burocrazia che a sua volta è figlia dell’inamovibilità dei dirigenti.
Ecco perché ritengo che la pratica dello spoil system in politica sia non soltanto opportuna ma anche auspicabile: in un sistema politico moderno che deve funzionare bene, secondo criteri meritocratici, di efficacia e di opportunità, di inamovibile devono esserci soltanto i vertici della magistratura. Di questo però non sono sicuro.
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