Dieci giorni al mare: non resisteva di più il mio papà montanaro, che aveva passato i suoi verdi anni tra i monti ossolani per la costruzione delle dighe in Vall’Antrona, dirette da suo padre.
Nemmeno la mamma era una patita del sole, anzi i pomeriggi marini erano rigorosamente dedicati al sonnellino e alle passeggiate, ma “per i bambini ci vuole lo iodio”. E così a settembre, quando il caldo era meno feroce e i prezzi più bassi, si partiva per l’Adriatico: Cesenatico, Riccione, Cattolica. Pensione decorosa, camere comunicanti con bagno al piano, spiaggia infinita, mare pulito (pensate un po’!) e vita di società. Come mi piaceva sfoggiare i vestitini fatti in casa, ogni anno rimodernati, e farmi raccogliere i capelli come una signorina, liberandomi delle insignificanti treccine! E scrivere il mio nome sulla busta portatovagliolo, e farmi servire dal cameriere, e ascoltare le chiacchiere dei grandi intorno ai tavolini dopo cena. E andare al cinema all’aperto a vedere le repliche delle repliche dei film d’annata con il sacchetto di semi di zucca, e acquistare i fumetti usati a dieci lire sulla bancarella del corso, e gustarmi il tanto sospirato giro sul pony, con foto finale …
Il clou, naturalmente, era la mattina in spiaggia. Non ricordo affollamento e confusione, ma grandi spazi per complicati castelli di sabbia, per mega piste da biglie, il gioco delle bocce, il volano e il tamburello.
Il bagno si faceva sul tardi, con tanto di cuffia a fiorelloni colorati, e quei dannati costumini di lana che pizzicavano sia asciutti che bagnati, e li perdevi in acqua se le onde erano appena un pochino vigorose, e non si asciugavano mai. Per fortuna la lana venne a poco a poco soppiantata dal cotone elasticizzato e dal nylon, per noi bambine i costumi erano pagliaccetti a gamba corta, per le donne avevano stecche e fiocchetti, una versione marinara del busto, insomma.
Lungo gli ombrelloni passavano anche allora i venditori ambulanti – tutti romagnoli – con il cocco, gli occhiali da sole (“Tolle brille!!” gridavano per i tedeschi, storpiando il Sonnenbrille germanico) e quei deliziosi stecchi di frutta caramellata, custoditi in cassette di legno e vetro portate a tracolla, che appena li avevi in mano ti cadevano per terra, ma si mangiavano lo stesso, ben conditi di sabbia e crema solare.
E tanti, troppi giovani tedeschi con un guanto nero al posto della mano, il bastone, la gamba di legno, la benda su un occhio; noi non capivamo perché i grandi non ne volessero parlare, e chiedevamo insistenti.
Ma amavo anche i pomeriggi di pioggia, immancabili in settembre, passati in albergo a colorare album nuovi nuovi, comprati apposta con la scatola dei pastelli per aspettare il ritorno del sole. E, dopo, quelle passeggiate sulla rena bagnata tra ombrelloni chiusi e sedie sdraio impilate, e il miracolo di conchiglie lustre di mare che la burrasca aveva regalato alla spiaggia, tra cui spuntava – pensate! – qualche minuscola stella grigiastra, spenta, rapita al fondo marino.
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