Fervono iniziative per celebrare degnamente la santificazione di Paolo VI, sacerdote, vescovo di Milano e Papa, così legato alla nostra vita religiosa cittadina attraverso la figura del suo segretario, don Pasquale Macchi. Per la maggior parte dei cristiani verrà ricordato come il Papa che ha governato e portato a termine il Concilio, molti saranno interessati a rileggere l’enciclica Humanae Vitae, anche alla luce della Amoris Laetitia di Francesco, altri ancora ricorderanno la Populorum Progressio, l’enciclica che aprì la strada ad una nuova considerazione del rapporto tra mondo economicamente sviluppato e e i Paesi ex-coloniali, ancor oggi pudicamente chiamati ‘in via di sviluppo’. La cifra culturale più unificante è stata colta ed evidenziata da un recente convegno dell’Università Cattolica: “Paolo VI e il Vangelo nel mondo contemporaneo”, un titolo che condensa efficacemente non solo l’opera da pontefice, ma l’indole profonda e personale dell’uomo e del sacerdote nell’arco di tutta la vita.
Vangelo e contemporaneità sono proprio i termini di un incontro necessario e difficile per la Chiesa, in un cammino iniziato con Giovanni XXIII e non ancora concluso. Paolo VI si è fatto carico nell’arco di un quindicennio di pontificato di portare alla luce tutti i problemi, i possibili contrasti, le esplicite contestazioni rivolte alla Chiesa da tutte le angolature politiche e culturali del mondo contemporaneo, innovando drasticamente rispetto alla mentalità di chiusura nella torre d’avorio dottrinale che aveva caratterizzato teologia e prassi vaticana degli ultimi due secoli. Un compito immenso, svolto con acume, ma anche con quella necessaria prudenza che, a torto, ha fatto pensare ad una personalità indecisa, ad un Papa ‘amletico’. La storia farà giustizia di questa incomprensione e della volontà di troppi teologi e prelati di volerlo tirare per la tonaca ed iscriverlo al partito conservatore o a quello progressista.
Nel momento di un ripensamento volta alla valorizzazione della sua opera e del suo insegnamento vorrei richiamare un ambito particolare, ma trascurato anche dal citato convegno della Cattolica: il rapporto della Chiesa con l’arte e con gli artisti, proprio come esempio di un tentativo tra i più difficili, occorre sottolinearlo, di riaprire un dialogo tra Vangelo e cultura contemporanea. Nell’incontro con gli artisti in Cappella Sistina nel 1964 aveva con sincerità riconosciuto che questa difficoltà era dovuta in gran parte alla Chiesa stessa: “… Il tema è questo: bisogna ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti …
Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi – vi si diceva – abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via di uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci …
… Siamo ricorsi ai surrogati, all’“oleografia”, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate …
Rifacciamo la pace? Quest’oggi? Qui? Vogliamo ritornare amici? Il Papa ridiventa ancora l’amico degli artisti? …”
Individuata la malattia, la cura fu iniziata con l’aiuto competente e appassionato di Monsignor Macchi. Dal lato del rapporto con gli artisti, l’amicizia offerta in quel discorso fu resa effettiva, spesso fin nel livello personale e furono apprestati strumenti operativi, principalmente l’apertura dei Musei Vaticani alle opera contemporanee e fu introdotta una nuova competenza nella committenza religiosa, anche grazie alla correlazione con la riforma liturgica. Il passaggio da forme di preghiera devozionali a celebrazioni comunitarie, ricche di connotazioni cristologiche non comportò solo di rivolgere l’altare verso i fedeli e di rimuovere statuine di gesso ed arredi di basso pregio, ma invitò a ripensare sia lo spazio delle celebrazioni, sia il corredo iconografico. Se lo sviluppo maggiore avvenne nel campo dell’architettura, anche per la necessità di costruire nuove chiese a causa dello sviluppo urbano, interessando fin dal principio autori come Michelucci e Giò Ponti, ma sollecitando anche in periferia l’impegno di progettisti di una certa fama, (ricordo opere interessanti di un giovane Mario Botta), la risposta al richiamo papale fu più lenta nelle altre arti, soprattutto al di fuori della committenza che potremmo chiamare d’eccellenza, quella vaticana, delle diocesi importanti e dei grandi ordini religiosi.
Una spiegazione di questo ritardo, tuttora evidente, può imputarsi ad una crisi interna alle arti figurative stesse, così tese alla ricerca di un ‘oltre’ da rischiare l’incomprensibilità per la massa della gente e quindi per la gran parte dei frequentatori delle funzioni religiose di quegli anni. Il rischio, credo non ancora superato, fu di considerare l’arte ‘sacra’ solo se rientrante negli schemi della tradizione e dissacrante, se non blasfema, quella che ne usciva.
Voglio perciò portare ad esempio di un percorso suggestivo l’opera di Floriano Bodini, fin dalle opere che potremmo chiamare ‘giovanili’ in merito all’età dell’autore, ma pienamente mature per la capacità di innovazione, pur nel mantenimento di un codice comunicativo riconoscibile dall’universo dei fedeli, a partire dal crocifisso ligneo visibile al Museo Bodini di Gemonio, per esprimersi in maniera simbolica di grande intensità come il bronzo ‘Papa e vescovi’ del 1963, presente sia in Vaticano, sia a Gemonio e raggiungere un culmine nel ‘Papa di legno’ (1968) dei Musei Vaticani (che sarà esposto prossimamente a Legnano), che fece scrivere a Dino Buzzati: “Impressionante, spiritata, somigliantissima e in fondo crudele”, una rappresentazione realistica e paradossale insieme dell’uomo che portava sulle spalle, simbolicamente esilissime, il peso della Chiesa messa alla prova dalle sfide della contemporaneità. Il Il monumento di Paolo VI del nostro Sacro Monte, posteriore di quindici anni, certamente appare meno inquietante al fedele che sta per entrare nello spazio tradizionale e rassicurante del Santuario. Costui avrà sentito di qualche polemica sulla sproporzionata lunghezza delle mani o sulle cinque zampe di una pecora del gregge, ma se vorrà dedicare un minimo di serena attenzione vi scoprirà una diversa ma altrettanto intensa tensione: non indotta da una preoccupazione ‘mondana’, come gestire il conflitto con la realtà contemporanea, ma dallo stupore di essere stato raggiunto e ‘sconvolto’, ma non prostrato, anzi sostenuto, dal vento dello Spirito.
Si dovrebbero aggiungere altre testimonianze, per superare il livello di minimo accenno ed abbozzare una ‘biografia artistica’ di Paolo VI e mostrare quanto gli artisti possano leggere i segni dei tempi più degli storici, dei giuristi e dei teologi e fornire a costoro prezioso materiale per una riflessione interpretativa, cosa che qui non è ovviamente possibile. Ci basti poter affermare che, sia Paolo VI con il suo insegnamento, sia gli artisti che hanno raccolto il suo messaggio fino a farsene interpreti anche proprio rappresentandolo con la loro arte, hanno iniziato a percorre una via, la via pulchritudinis, la via della bellezza nell’annuncio del Vangelo, come auspicato da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium.
Possiamo quindi accogliere come conclusione il concetto che esprime il p. Dall’Asta in ‘Eclissi’, il libro che ha dedicato al superamento del ‘divorzio’ tra arte e Chiesa: “Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove”.
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