Ho ricevuto in dono una suggestione che metterò a frutto nel tempo dell’estate, periodo dentro cui può essere utile riservarsi qualche momento di ozio creativo: dotarsi di una metaforica cassetta degli attrezzi per riparare, sistemare, rimettere insieme alcuni aspetti insoddisfacenti dell’esistenza.
Bello se una simile cassetta, fatte le necessarie proporzioni, potesse essere usata per qualche riparazione necessaria al mondo.
A porgermi questa opportunità un romanzo che viene dall’Islanda, quel minuscolo paese, aggiungo occidentale anche se di questi tempi l’aggettivo sta assumendo una connotazione ambigua, che a ogni incontro riesce a stupirmi.
Mi affascina la resilienza dei suoi abitanti, poco più di 300.000 abitanti, che lottano con un clima inclemente per dieci mesi l’anno, con poche fortune tra cui un governo i cui rappresentanti sono amici o conoscenti di tutti, dove è possibile essere cugini o parenti, e nemmeno alla lontana, dei propri vicini di casa come dei residenti nei fiordi più sperduti.
In questo contesto la scrittrice Audur Ava Olafsdottir ha scritto un libro speciale, giunto a noi con il titolo “Hotel Silence”. È un viaggio verso la riconciliazione tra sé e se stessi, che dalla terra dei geyser si sposta in un paese che si presume del Medio Oriente, dove la guerra ha distrutto tutto.
Un uomo guarisce le proprie ferite accettando di occuparsi di quelle degli altri facendo ricorso alla inseparabile cassetta degli attrezzi. È il quarantanovenne Jónas, con un talento speciale per riparare ogni cosa, esclusa la propria vita ridotta allo sfacelo: la rottura con la moglie, la notizia che l’amata figlia in realtà non è sua, l’anziana madre ormai persa nelle nebbie della demenza. Persino il ritrovamento dei diari di gioventù gli provoca lo sgomento angosciante di sentire estraneo anche il giovane che è stato ieri.
Il vuoto della sua vita lo conduce al proposito di suicidarsi. Però deciso a non disturbare nessuno. Per questo motivo si reca dove nessuno si accorgerà della sua presenza, nella terra martoriata da una guerra infinita, uomo senza nome con i soli abiti che indossa e la cassetta degli attrezzi che contiene anche il “necessario” per morire.
L’incontro con le persone del posto e le loro ferite insanabili fa slittare il suo progetto giorno dopo giorno.
Controvoglia Jónas cede alle richieste di riparare oggetti e di rimettere in funzione le abitazioni delle persone che vogliono ricominciare a vivere.
La sua vicenda diventa il racconto di una rigenerazione e di una trasformazione, fondato sull’assioma secondo cui anche dalle macerie, dal lutto, dall’orrore, ci si può sollevare e tornare a sperare.
Si può rinascere secondo “Hotel Silence”, romanzo ricco di simboli, a partire dal titolo che richiama la necessità di tacere per un po’, per guardarsi dentro e ripensare la propria vita.
Dal silenzio riemerge anche la voce del bambino che la guerra aveva traumatizzato fino a togliergli la parola.
Grazie a questa lettura che regala un senso di pacificazione ci ricordiamo che nella vita reale e in quella nascosta nell’intimo di ciascuno, tutto o quasi può essere riparato.
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