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Souvenir

FRUTTI PROIBITI

ANNALISA MOTTA - 29/06/2018

ribesNel prato immenso dei miei nonni stavano, schierati come soldati, gli alberi da frutto: meli, peri, susini, prugni, ciliegi e un caco. Nell’angolo più lontano, quasi in castigo, un nocciolo enorme maturava i suoi frutti nelle ultime settimane di vacanza. Sui lauri della cancellata pendevano i grappoli dei laurini (non so se si chiamino proprio così, ma tanto per intenderci). Qua e là in mezzo alla ghiaia spuntavano deliziose fragoline di bosco tardive. Perfino il noce del vicino ci regalava parte del suo tesoro, che cadeva al di qua della recinzione; e ci fu per qualche anno una siepe sparuta di ribes e uvaspina, ma intralciava la fienagione ai bordi del prato e finì tragicamente “segata” da un contadino sbrigativo.

Un vero bengodi, direte voi. Ma neanche per sogno!

Le prugne, rosse e bianche, succose da far venire l’acquolina, erano sempre troppo acerbe. “L’è mia ura” sentenziava la nonna, e guai a rubarne anche solo una. Le ciliegie arrivavano troppo presto, quando eravamo ancora in città, e se le piluccavano gli uccelli lasciando picciuoli con attaccato solo il seme. Ribes e uva spina- finché durarono – erano perennemente aspri, mai davvero maturi. Le mele e le pere non ci attiravano più di tanto, anche perché erano piccole, dure, tutte “abitate”   e non si potevano spiccare dal ramo ma solo raccattare da terra: impiegando poi pomeriggi interi a mondarle dalla buccia, dai semini e dai bacherozzi.

Restavano noci e nocciole, e quelle sì che si potevano mangiare, ma dopo un trattamento speciale. Le nocciole si dovevano sbucciare dall’involucro, cosa non sempre facile: poi si stendava un giornale sul balconcino al sole e lì si lasciavano a seccare almeno per una settimana. Finalmente ci si poteva servire: sasso e mattone per romperle, o schiaccianoci sotto supervisione adulta.   Qualcosa si riusciva a mettere sotto i denti, nonostante   il guscio fosse spesso vuoto, o la nocciolina (erano oblunghe e striminzite, mica le nocciole panciute che si comprano) deforme e amara. Ci facevamo il croccante, se la nonna aveva tempo: cuocevamo lo zucchero per farlo caramellare e lo spargevamo sul tavolo di marmo imburrato, ricoprendo   le nocciole in attesa. Una volta freddo (quante scottate con lo sciroppo bollente e filante!) si staccava il croccante dal marmo con una lama di coltello e si usciva in giardino a goderci la conquista.

Le noci raccolte sotto l’albero andavano liberate dal mallo e lavate e asciugate, così come la manine che si erano sporcate. Guai se ne restava traccia, l’amaro che ti arrivava in bocca ti faceva vomitare – letteralmente. Poi si doveva scegliere: o lasciarle maturare, o accontentarsi di quel gheriglio fresco, bianco e umidiccio, da cui dovevi togliere l’immangiabile pellicina.

Gli unici frutti di cui eravamo padroni assoluti, a parte rare fragoline nate per sbaglio sui viali, erano i laurini, quelle bacche violacee a grappoli che maturano in piena estate, dalla consistenza viscida e un gusto forte e stuzzicante. Ci si mangia ben poco, perché son quasi tutto nocciolo: in compenso, ci si sporca da morire bocca, denti, mani, magliette e pantaloncini. La nonna ci faceva, in certe stagioni, un liquorino scuro – a noi proibito- o metteva le bacche sotto spirito.

Dopo anni di scorpacciate assolutamente innocue, esperti botanici mi hanno rivelato che queste bacche sono velenose, come gli oleandri e la cicuta.

Toh, e pensare che erano gli unici frutti del giardino “all you can eat”.

 

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