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Editoriale

DOMANI

MASSIMO LODI - 29/06/2018

salvinimartinaDomani/1. Salvini dopo il successo alle amministrative è l’incontrastato dominus del governo. Tanto da poterlo affondare quando vuole. L’idea d’un siluro alla fine dell’anno, così da rivotare in parallelo alle europee della primavera 2019 e fare il pieno di suffragi, probabilmente resta in cima ai suoi pensieri. O forse se ne sostituisce un’altra: disfarsi comunque dei Cinquestelle, alleato imbarazzante anziché partner di sostegno, e proseguire la legislatura agganciando al carro governativo Berlusconi e Meloni. I due non garantirebbero la maggioranza al futuro premier (perché il premier sarebbe lui, Salvini, mica il primo Conte che passa), ma la sua caccia ai “responsabili” in Parlamento avrebbe ottime possibilità di successo. In tanti sono pronti a mollare/tradire i partiti con i quali han varcato la soglia di Montecitorio e Palazzo Madama per salire sul carro del leader oggi più popolare d’Italia. Del resto, il passato -anche e specialmente quello recente- insegna che la nostra storia è segnata dal trasformismo. Un dna di lontana data, e del quale non s’è mai realisticamente vergognato nessuno. Tranne che gli avversari politici.

La Meloni ha evidente interesse ad associarsi a un Salvini spadroneggiante: non teme tagli al suo personale consenso, che è di poca consistenza. E ne guadagnerebbe in seggiole di potere. Berlusconi invece ha da riflettere: che ne sarà di lui, e di Forza Italia, se accetterà una posizione subalterna, e anzi di vero e proprio gregariato, all’attuale ministro degl’Interni? Il sì all’operazione giungerà solo in cambio d’un ruolo di straordinario prestigio riservato al ricandidabile Cav. Altrimenti le complicanze attorno al successo dell’operazione non mancheranno.

Domani/2. A sinistra regna la confusione. C’è chi (Calenda) vorrebbe sciogliere il Pd e ripartire da un nuovo partito/movimento seguendo la traccia francese di Macron. E c’è chi (Zingaretti) crede nella rifondazione dei Democrats, chiamando a raccolta il mondo del civismo, dell’associazionismo, del trasversalismo antisovranista. Renzi per ora sta alla finestra, non più al cinema a sgranocchiare pop corn (dimostratisi flop corn alla prova delle urne locali): l’occasione d’andare per conto suo la perse un paio d’anni fa, dopo il trionfo alle europee. Ora tutto si è fatto difficile. Ma tra Calenda e Zingaretti, la sua simpatia va indubitabilmente a Calenda. Di sicuro Renzi non può aspettare la Leopolda d’ottobre per decidere quale via seguire. Né Zingaretti la può tirare in lungo con assemblee, primarie, congressi. E Calenda non può lanciare appelli in favore di un auspicabile Fronte repubblicano/listone popolare un giorno sì e l’altro pure.

A sinistra bisogna decidere. Alla fine non importa che cosa, purché qualcosa. Questo si aspettano i delusi del Pd: che il Pd dia un segnale di pragmatismo e risolutezza. Di vita. Se no sarà la fine d’ogni residuale speranza nel recupero. Nessuno se la augura, perché una democrazia che funzioni necessita, ad argine d’una forte maggioranza, d’una minoranza capace d’essere autorevole e alternativa. In assenza d’una tale dialettica, rischia di non essere democrazia, ma una sorta di legittimata autocrazia: il peggio possibile.

 

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