Rating è un vocabolo inglese che significa valutazione, stima.
Tale vocabolo viene utilizzato in molti campi delle attività umane: economico, nautico, etico, psicologico, radio televisivo, e di interi assetti di uno Stato.
I campi di applicazione più noti sono sono certamente quello economico e quello di valutazione di uno Stato.
Il rating economico valuta principalmente la affidabilità dei titoli (le azioni o le obbligazioni) emessi da una determinata società, per come declinata nei rispettivi ordinamenti e lessici.
Il rating di uno Stato è quello che produce la temuta classificazione internazionale espressa in lettere e loro multipli: A, doppia, tripla o B doppia, o tripla con i segni più e meno, come ai tempi della scuola elementare.
La cosa strana è che per emettere tali, spesso imprecise, valutazioni non occorrono titoli o abilitazioni specifiche o particolari; ma la diffusione di tali “ sentenze” produce effetti sulle borse e sugli spread con movimenti inversi, così da far apparire il rating una novella divinità “che muove il sole e l’altre stelle”.
Altra storia è quella del rating etico, dai più snobbato come l’inarrivabile uva “acerba” della favola di Fedro.
Viene rilasciato da organismi di certificazione internazionali e giudica l’eticità della governance di una società, un ente o una organizzazione.
La certificazione, che da tranquillità a chi si affida ad una struttura certificata, si chiama SA8000. Pochi la possiedono e la mantengono, come so bene per averla ottenuta ininterrottamente per 5 anni per l’organizzazione che dirigevo, Confindustria Catania.
Nel sistema anglosassone infine, al rating affiancano la reputation e valutano anche i valori immateriali per “ pesare “un soggetto, pervenendo alla formulazione di bilanci di valutazione con gli sperimentati parametri I.A.S.
In Italia, per indurre banche ed istituzioni ad aprire borse e graduatorie a soggetti con basso merito creditizio e non solidissimo curriculum di attività pregresse, ci siamo inventati il rating di legalità.
E ciò dimenticando che se l’onestà/legalità è condizione necessaria, non sempre è sufficiente a supplire requisiti di merito creditizio o di esperienze consolidate.
Tale iniziativa venne sponsorizzata da Confindustria che ne affidò la promozione al suo Consigliere delegato alla legalità.
Poiché tale adempimento, del tutto inutile, era a costo zero per lo Stato, venne favorito il progetto, poi divenuto legge, la l27del 2012.
Ciò diede grande visibilità e ulteriore potere al suo promotore.
La verità era ed è ben diversa: Le imprese in Italia sono 4.400.000;
le imprese che in 6 anni hanno chiesto o rinnovato l’attestazione di rating di legalità sono state 5.715 cioè lo 0, 13 %; quelle che hanno presentato tale certificazione al sistema bancario sono state 3265; quelle che da tale certificazione hanno ottenuto “riduzione dei tempi di istruttoria e dei relativi costi” 1.119, lo 0, 0254%.Nessuna di tali certificazioni ha inciso sulla valutazione del merito creditizio.
La fonte di tali notizie è Bankitalia nella sua comunicazione alla stampa del 28 Ottobre 2017.
Delle due l’una: o tale rating di legalità è del tutto inutile, ed è in realtà servito solo a far crescere il potere di chi lo ha promosso e divulgato fino a pochi mesi fa, oppure in Italia ci sono 4.398.881imprese fuori dai canoni di legalità.
Per meglio spingere l’iniziativa, dimostratasi un flop, l’obbligo di presentazione di tale attestato è stato inserito in alcune leggi della Regione Siciliana durante la gestione Crocetta &co.
Credo che dovremmo ridare il loro vero significato alle parole e alle certificazioni e, soprattutto fare sì che le istituzioni, oggi l’autorità garante del mercato e della concorrenza, impieghino tempo e risorse in attività produttive di effetti.
La legalità è come la religione: si pratica e non si proclama e dietro ad una stella di latta, se pure c’è sempre uno sceriffo, non ci scordiamo che nel West, tali tutori della legge spesso ne erano (eufemismo) discutibili interpreti.
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