La scuola? E’ finita. Non è il calendario a dettare questa considerazione. Certo, siamo a giugno, e, a parte il tradizionale rito di passaggio dell’Esame di Stato, per la maggior parte degli Studenti e dei loro Insegnanti l’anno scolastico si è concluso.
No, la Scuola, in Italia, sembra proprio che abbia esaurito la sua funzione. Non riesce più, evidentemente, a formare cittadini liberi, autonomi e responsabili; non è in grado di preparare gli adolescenti alla complessità del presente; non contribuisce più al superamento delle diseguaglianze; non sembra offrire la possibilità di diventare ciò che si vuole sulla base dei propri talenti.
La Scuola, in Italia, sembra precipitata al grigiore degli anni Cinquanta.
Fa parlare di sé solo se guadagna le pagine di cronaca (preferibilmente nera). La Scuola fa notizia solo quando qualche disgraziato, giovane o adulto, pesta un insegnante. In questo caso, per qualche giorno (pochi, in verità), i soliti psicologi-sociologi-antropologi-filosofi abituati ad esercitare la loro professione in uno studio televisivo, sciorinano le solite banalità. E sembrano scoprire, come se fosse una notizia dell’ultima ora, la perdita di prestigio sociale della categoria “Docente”.
Recentemente, nei primi giorni di questo mese di giugno, un autorevole opinionista del «Corriere della Sera» ha trovato la soluzione alla crisi del sistema scolastico e, molto generosamente, ha voluto offrirla, nella forma del decalogo, al nuovo Ministro, che di Scuola dovrà occuparsi. Del resto, questo Ministro è espressione di quel «cambiamento», che costituisce la parola d’ordine del nuovo Governo. E allora…, cambiamo!
E quali saranno mai i suggerimenti che l’autorevole opinionista del quotidiano milanese ha immaginato potranno imprimere un nuovo corso alla malmessa Scuola nazionale? Si va dalla reintroduzione della pedana per la cattedra, all’obbligo per gli Studenti di levarsi in piedi quando entra l’insegnante; dal divieto assoluto di «occupazioni», «autogestioni» e roba simile, alla esclusione dei genitori da ogni organismo scolastico. In sostanza, il «cambiamento» consisterebbe nel riportare la Scuola italiana agli anni Cinquanta.
E com’era la scuola negli anni Cinquanta? Chi fa l’insegnante o chi, per qualunque motivo, si occupa di pedagogia e di educazione, dovrebbe conoscere il libro di Mario Lodi, Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica, pubblicato per la prima volta nel 1970. In questo libro, l’autore raccontava la sua esperienza professionale presso la scuola elementare di Vho di Piadena negli anni tra il 1964 ed il 1969. Nella lettera indirizza a Katia, che apre il volume, così descrive la Scuola di quegli anni:
«C’è una terribile somiglianza fra le celle di una vecchia prigione e le aule delle scuole: c’è la stessa ossessiva fissità delle strutture percettive (colori, forme, superfici), la stessa monotonia psicologica. […] Con una differenza: che mentre il prigioniero in cella è lasciato solo con i suoi pensieri e in un certo senso gode della “libertà” di pensare ai fatti suoi, nelle aule c’è un maestro che né i bambini né le famiglie hanno scelto, il quale si prende i ragazzi e li abitua a ripetere ciò che egli dice, premiando quelli che meglio si adeguano.»
Ho il sospetto che molti Insegnanti vorrebbero tornare a quello stile e a quel modello educativo… Dovremmo avere il coraggio, noi Insegnanti, di confessare che il crollo verticale del cosiddetto prestigio sociale della nostra categoria è in parte (“in parte”) dovuto anche (“anche”) ad una diffusa inadeguatezza a svolgere un ruolo così delicato e dannatamente importante. Coloro i quali reclamano «rispetto» solo per la funzione che svolgono (e credono di poterlo ricevere elevandosi su una pedana o facendo alzare in piedi gli Studenti al loro solenne ingresso in aula), dovrebbero accettare il fatto che non è la «funzione» a generare automaticamente autorevolezza, ma, al contrario, è il modo in cui la si esercita che le dà valore. Poi, certo, c’è «lo Stato assente», «le risorse che mancano», «le inutili riunioni», «la burocratizzazione del lavoro», «l’arrogante ingerenza delle famiglie» e tutta la sequela di lamentazioni che ben conosciamo.
La Scuola riveste (ancora!) una funzione sociale e culturale strategica: contribuire al miglioramento (non ad un generico «cambiamento») del mondo in cui opera. E per svolgere questo compito, non può esimersi dall’adattarsi al mondo che muta. Immaginare di ritornare ad un modello di insegnamento ex cathedra, cioè meramente trasmissivo, è semplicemente ridicolo. Per quanto sia ancora molto praticato e diffuso (è più comodo ed è più facile).
Potrebbe essere utile, per capire sino a che punto la Scuola sia in grado di cambiare le condizioni di contesto, contribuendo così all’emancipazione e al miglioramento individuali, leggere i bellissimi racconti pedagogici di Carla Melazzini, raccolti nel volume Insegnare al principe di Danimarca, del 2011. Il titolo si riferisce ad una riflessione dell’autrice, valtellinese, che è stata, a Napoli, una maestra di strada, una di quei maestri, cioè, che hanno ridato una nuova «Chance» (così si chiamava il loro progetto) a quei ragazzi napoletani, che avevano abbandonato gli studi:
«Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?»
Insomma, per farla meno tragica: se si pensa di poter riqualificare la funzione docente ripristinando la distanza tra cattedra e banchi; se chi dovrebbe insegnare non è in grado di avvicinarsi a coloro i quali sono destinatari del suo servizio; se tutto si risolve con la reintroduzione di una pedana, beh… allora la Scuola è davvero finita.
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