Ebbene sì, qualche battaglia l’ho fatta anch’io, ai miei tempi. Senza lanciare sassi e impugnare spranghe, senza inveire contro la società borghese a suon di ideologia, senza scontri fisici con gli avversari (eravamo bravi ragazzi cattolici). Ma di fughe per le vie di Milano, di fifa blu a sentire la marcia dei pulotti in assetto antisommossa, di cortei con gli slogan gridati e striscioni innalzati, ho avuto anch’io la mia particina. In particolare, essendo fanciulla e iscritta alla Cattolica, mi mettevano a scrivere i tazebao (mai stata brava però) e a distribuire volantini per le riunioni.
Volantini è una parola grossa… Fogliacci di carta grezza gialliccia, che chiamavamo “ciclostilati”: giustamente, dal momento che venivano stampati da quella macchina prodigiosa e insostituibile che era il ciclostile.
Diciamo che la procedura non era semplicissima. Occorreva il ciclostile, ovvio, un macchinario pesante e ingombrante che consentiva di sformare centinaia di copie – a basso costo – da un unico originale (la matrice) fissato a un grosso cilindro rotante inchiostrato. Funzionava a manovella; solo più tardi, negli anni’80, quando lo ritrovai nella mia nuova parrocchia, si era motorizzato. Ma ancora richiedeva un posto adatto, possibilmente lontano da luoghi di riunione, perché il suo “patashlaff patashlaff”, amplificato dal motore elettrico, impediva qualsivoglia dialogo.
Le matrici erano un po’ più larghe e molto più lunghe di un formato A4. Avevano tre strati: un cartoncino di supporto, un foglio di carta cerata e una velina copiativa. Come funzionava? Si prendeva la matrice, la si infilava nella macchina per scrivere facendo attenzione che la velina non si arricciasse, e si toglieva il nastro in modo che i tasti battessero direttamente sulla carta, in pratica incidendo le lettere; una serie di righe a stampa ti davano i riferimenti per “centrare” il testo.
E se si sbagliava? Niente paura, c’era uno smalto speciale, rosa fosforescente, che con il suo bel pennellino ripristinava la superficie cartacea, e dopo pochi secondi – ma non immediatamente – ci si poteva riscrivere sopra. Così le matrici già pronte avevano la parvenza di tovaglie da picnic macchiate qua e là di vino novello.
Far funzionare il ciclostile era affare da uomini. Noi ci limitavamo ad assemblare i fogli girando intorno al tavolo: pagina 1, pagina 2, pagina 3, a mano a mano che venivano sputati dalla macchina. Poi li si spillava, si mettevano sotto braccio, e ci si armava di faccia tosta.
Le testate di questi inviti proclami avvisi proteste minacce programmi che circolavano erano le più varie, dalla stella delle Br alla neonata Comunione e Liberazione.
Ma tutti, indistintamente e orgogliosamente, si chiudevano con un: “Ciclostilato in proprio”.
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