Se abbiamo un governo politico lo dobbiamo in particolare al Presidente Mattarella. È stata la sua bussola dal 5 marzo in poi. Tenute lontane le elezioni anticipate, e data l’indisponibilità del Pd, era lo sbocco preferibile ritenendo il governo tecnico inadatto alla gravità del momento sia per la peculiarità italiana sia per le sfide che ci attendono sul piano internazionale.
Dicevano i critici, con qualche apparente fondatezza: Mattarella avrebbe dovuto dare subito l’incarico a Salvini, leader della coalizione più robusta e, in caso di probabilissimo insuccesso, passare la mano a Di Maio del partito più forte. Al termine di questo processo (e dopo averli bruciati entrambi) avrebbe fatto il governo tecnico, o di servizio o del Presidente. Ma questo era il contrario del suo obiettivo dichiarato e condivisibile.
Dicevano altri critici: Mattarella ha avuto troppa pazienza ed ha mediato troppo. Ma in quest’epoca i governi sono complessi e richiedono lunghi negoziati in molti Paesi europei. In più, i due parziali vincitori sebbene accomunati dalla cultura “sovranista” avevano dei programmi per tanti aspetti diversi o alternativi. Allo scopo di accelerare i tempi Mattarella aveva posto, fin dai primi giorni di maggio, sul capo dei mezzi vincitori la spada di Damocle (pericolo incombente) del governo tecnico tenendola sempre in serbo.
La critica feroce che aveva quasi travolto il Presidente agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica era legata al no a Paolo Savona e anch’io avrei preferito che eccepisse sulla figura di Giuseppe Conte “esecutore del contratto” mentre il Presidente del Consiglio, detta la Costituzione, “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile”. Ma proprio perché assolutamente sconosciuto (caso inedito in tutto il mondo democratico) Mattarella non aveva probabilmente ritenuto di possedere appigli formali per negargli l’incarico. Su Savona, invece, le antenne del Quirinale gli trasmettevano i forti allarmi di investitori e risparmiatori che l’Italia avrebbe pagato a carissimo prezzo.
Il fatto che Cinquestelle (e Fratelli d’Italia) avessero grottescamente proposto di metterlo sotto accusa per tradimento alla Costituzione è un segno dell’improvvisazione e del degrado etico-istituzionale a cui si è giunti. Salvini non è arrivato a tanto ma la sua volgarità propagandistica era urlata nelle piazze. La critica seria ci sta sempre ma è tutta un’altra cosa.
Obiezione a questo ragionamento: il governo è quasi uguale a quello della drammatica domenica sera (27 maggio) quando l’Italia era sembrata precipitare nel caos. Vero, ma è cambiato sostanzialmente il clima politico-istituzionale con due fatti molto rilevanti.
Primo, sono state ribadite le prerogative costituzionali del Capo dello Stato. Sono prerogative che appartengono all’equilibrio dei poteri al vertice della nazione. Poteri che non derivano tutti dal voto popolare, il che comporterebbe il rischio dell’autoritarismo plebiscitario. Questo principio è il cuore dello Stato liberal-democratico voluto dai costituenti.
Secondo, nei sei giorni intercorsi dal no a Savona alla formazione del governo, abbiamo assistito ad un profluvio di dichiarazioni rassicuranti sull’Europa, sull’euro, sulla conferma della nostra collocazione internazionale. Parole importanti per il cammino dell’Italia.
Resta il giudizio negativo sul programma del governo, una somma non realizzabile (più che una sintesi) delle promesse elettorali. Il Presidente continuerà a vigilare ma queste valutazioni politiche non rientrano nei suoi compiti costituzionali.
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