C’è una causa forse secondaria, e forse invece primaria, nel film tragicomico dal titolo Palazzo Chigi. Si chiama comunicazione. Molto di quel che sta capitando è l’esito finale di astuzie e di flop della comunicazione. Le astuzie (1) vengono dai populisti e dai loro fiancheggiatori mediatici. Sono stati capaci, per anni, di dipingere dell’Italia un quadro peggiore di quant’essa proponesse: non funzionava nulla, il Paese era guidato da una banda d’incapaci e di servi dell’eurocrazia, complotti irriferibili tra poteri forti e menti deboli condizionavano la vita economica e sociale, i cittadini risultavano le vittime d’un sistema studiato apposta per fregarli, regalando ai ricchi e togliendo ai poveri. La buona fede in molti casi, la credulità in tanti altri, ha beneficato i protagonisti della lunga, cinica, ossessiva campagna.
Il flop (2) viene da chi ha avuto in mano le redini della Repubblica. I governi Renzi e Gentiloni sono stati tra i migliori degli ultimi decenni, riuscendo a frenare una crisi devastante, a migliorare la situazione generale, a creare i presupposti del rilancio. Felici alcune scelte politiche, all’altezza alcuni esecutori individuati per praticarle. Ma tutto ciò non è stato fatto sapere come si sarebbe potuto/dovuto. Non si trattava di battere la grancassa della propaganda, si trattava d’informare con pazienza ed efficacia su che cosa si stava combinando di buono, nonostante le obiettive difficoltà.
Il risultato, al netto di errori commessi e di personalità istituzionali non adeguate al compito, è stato un crescente e immotivato discredito, basato su luoghi comuni, superficialità, disfattismo. Si è vissuto nella disarmante consapevolezza d’essere un popolo abbandonato a sé stesso e, anzi, sfruttato senza scrupoli da quanti operavano al solo scopo d’esercitare, incrementandolo, il proprio potere. La classe dirigente ha via via perduto appeal, i partiti di governo -e il Pd in particolare- si sono cimentati testardamente/sciaguratamente in dispute tra di essi e al loro interno con effetti deleteri, giornali e televisioni hanno amplificato il messaggio negativo e creato le condizioni della rivolta nelle urne.
Ma dietro a tanta protesta c’era poca proposta. Anzi, non ce n’era proprio, come abbiamo visto negli ultimi tre mesi. All’impulso contestatore (facciamo macerie di tutto quello che esiste) non è corrisposto un razionale progetto di rinnovamento. Ne è testimonianza la necessità di stipulare, tra due forze confliggenti come Lega e Cinquestelle, un “contratto del cambiamento” che rappresenta il notarile compromesso indispensabile a supplire all’assenza di un’intesa strategica e omogenea per rifondare l’Italia, ciò che secondo Salvini e Di Maio andrebbe compiuto. Anche quest’idea un po’ vaga, un po’ incosciente, un po’ ridicola, un po’ sventurata gode di un’esagerata/laudativa propulsione massmediatica, sulla traccia di quanto accaduto in precedenza per sovvertire l’esistente. La vera alternativa non è tra vecchio e nuovo, tra élite e popolo, tra destra e sinistra, tra giacobinismo e conservazione. È tra le parole e i fatti. Per ora hanno stravinto le parole, i fatti continuano a perdere. E chi per mestiere usa le parole a illustrazione/commento dei fatti, ne porta (forse) la primaria e non secondaria responsabilità.
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