Certo, il nostro era un palazzo di città. Ma era stato costruito, assai prima degli sgraziati epigoni che l’avrebbero circondato, ai margini della campagna, sul confine degli smisurati campi di insalata che ricoprivano le pendici della collina del Gaggianello, tra Casbeno e Sant’Albino.
La strada per arrivarci, nonostante la vicinanza dal centro, era sterrata, il marciapiedi ghiaioso, e se da una parte si stendeva il terreno di una vecchia cascina sopravvissuta, dall’altra un muro rossiccio alto due metri recingeva la Colonia Elioterapica di mussoliniana memoria, modesto edificio in perfetto stile razionalista, dotato di un parco spettacoloso e ormai imbarbarito.
Così, pur dicendoci cittadini, noi eravamo in realtà un poco campagnoli, e conoscevamo segreti che i varesini del centro si sognavano.
Il prato: ne conoscevamo ogni fiore e piantina, non per nome, magari nemmeno per soprannome, ma ce ne servivamo senza ritegno, nonostante e anzi proprio a causa del terrorismo degli adulti.
A marzo ciucciavamo le primule, per sentirne in fondo, ma proprio in fondo al calice giallo quel po’ di zuccherino e usarle poi come trombetta; ad aprile facevamo scorpacciate di erba cucca, agra da far arricciare la lingua, e ne cercavamo le fogliette nuove, che a differenza dei gambi si potevano ingoiare interamente, senza dover sputacchiare i filamenti. Anche i grappoli del glicine, che fiorivano verso maggio, erano un buon bocconcino: fiore per fiore, ne toglievamo i petali e succhiavamo i pistilli giallini e vagamente dolci.
Con le piante poi ci si giocava: quando maturava quell’erba di campo detta “verzetta” – mi dicono si possa fare in insalata ma non ci ho mai provato -, ne schiacciavamo i fiorellini tondi e vuoti tra i palmi delle mani per farli scoppiare con uno schiocco: tant’è vero che per noi erano gli “s’cik”. I più divertenti erano i minuscoli baccelli di un fiore bianco-fucsia, pianta infestante che da tempo non vedo più nei prati: se erano belli gonfi e maturi, al minimo tocco scoppiavano come fuochi d’artificio, seminando intorno microscopici semi e facendoci sempre sobbalzare. E usavamo, per lavarci le mani, le foglie lanceolate di una pianta dai fiorellini lilla, che bagnate davano una schiuma saponosa eccezionale. La parietaria forniva spettacolose foglie vellutate e aderenti, con cui decorare magliette e gilerini, e non parliamo dei frutti dagli aghi uncinati della lappola, una sorta di velcro ante litteram, che si attaccava a calzettoni, maglie, capelli, a tutto quanto di peloso indossavi. Lanciarli addosso era un ottimo sistema, tra l’altro, per indispettire i maschietti.
In piena estate cominciavano le more, ce n’era un bosco intero, di rovi intendo, proprio lungo la ferrovia Nord, ma bisognava coprirsi da capo a piedi per non tornare sanguinanti dalla spedizione. Mentre la conquista dell’autunno erano i dolci scuri moroni dei gelsi che popolavano il grande prato della cascina, ormai inselvatichiti e inutili, non essendoci più bachi da seta da nutrire: così nessuno si lamentava se ne saccheggiavamo i frutti.
Se si riusciva poi – ma qui il contadino era sul chi vive – ci si avventurava a rubacchiare qualche pannocchia di quelle maturate in basso, con il suo bel pennacchio scuro, le foglie legnose e taglienti, i chicchi ancor chiari e teneri. Ci toccava una bella ramanzina, ma poi la mamma chiudeva un occhio e ce l’ abbrustoliva sul fuoco.
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