I frenetici incontri tra le delegazioni di Lega e Cinquestelle nei giorni scorsi per trovare un accordo per la formazione di un nuovo Governo hanno messo in luce almeno tre elementi particolarmente rilevanti.
Il primo: dopo aver discusso a lungo su come valorizzare i punti comuni dei due programmi e su come smussare i motivi di contrasto ci si è accorti che la cosa più difficile su cui trovare un’intesa era quella sui nomi. Innanzitutto sul presidente del Consiglio, ma in rapida successione anche su quelli dei ministri, dei responsabili delle grandi aziende di Stato, della Rai, di tutte quelle istituzioni, e sono tante, in cui le nomine spettano al Governo. Ci si è anche scontrati con problemi istituzionali perché il primo ministro può essere indicato dai partiti, ma é comunque nominato dal presidente della Repubblica, così come i ministri. Ma i problemi principali sono stati quelli di linea politica e di garanzia sul rispetto del contratto di Governo da parte del designato.
Il secondo: definire un programma comune è certamente importante, ma altrettanto importanti sono le gambe e soprattutto la testa di chi deve attuare questo programma nella quotidianità delle scelte legislative e amministrative. In questa prospettiva le due compagini hanno più volte ribadito la volontà di mettere alle leve del potere esponenti politici senza nessuna possibile apertura ai cosiddetti “tecnici”. Il problema è che l’azione politica è sempre meno fatta di scelte puramente ideologiche perché bisogna fare i conti con la realtà e quindi le competenze non sono semplicemente utili, ma indispensabili. Ora la classe politica uscita dalle elezioni del 4 marzo sarà giovane, appassionata e volenterosa, ma i problemi del paese sono tali da richiedere una grande capacità di individuare prima e di cogliere poi tutte le opportunità. Uomini di Governo non ci si inventa da un giorno all’altro.
Il terzo elemento di riflessione è dato dai contenuti che mano a mano sono emersi dalle anticipazioni del contratto di Governo. Un contratto che ha ovviamente cercato di salvaguardare i punti forti dei due programmi politici. Ebbene, nonostante le promesse di gradualità nell’introduzione delle riforme, la portata dei grandi interventi su reddito di cittadinanza e flat tax sembrano comunque richiedere un impegno finanziario difficilmente compatibile con un equilibrio di bilancio necessario non tanto per rispettare i vincoli europei, quanto per non aumentare un debito già troppo alto e che ha ora un costo annuo di 70/80 miliardi per gli interessi. Gli impegni europei ci impongono infatti quella corretta amministrazione che va in primo luogo a vantaggio di noi stessi.
Questo non vuol dire che la riduzione delle tasse attraverso una forte riforma fiscale così come l’aumento degli interventi per combattere la povertà e l’emarginazione non siano misure positive ed apprezzabili. Ma prima o poi i conti devono tornare e il prezzo da pagare nel caso in cui crescesse la sfiducia verso la sostenibilità del debito italiano non sarebbe né limitato, né leggero. Non dimentichiamo che la partecipazione all’euro ha mantenuto bassi i tassi di interesse e ha garantito la stabilità dei prezzi, annullando quell’inflazione che è la più ingiusta delle tasse come hanno dimostrato gli anni ’70 e ’80 che hanno posto le basi della stagnazione economica.
Nel complesso quindi le trattative per il Governo hanno dato un’impressione disarmante di confusione delle strategie e di scarsa valutazione dei possibili effetti negativi sul sistema economico e sociale.
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