Mi sono posta una domanda sul funzionamento della scuola a partire da un episodio che mi ha stimolato alcune riflessioni.
Per capire come funziona una scuola “reale”, suggerisco alcune vie.
Entrarci (con il permesso della dirigenza): potendo, gironzolare per i corridoi, ascoltare le voci che escono dalle aule, osservare quanti ragazzi stazionano fuori dalla classe per una pausa personale, verificare il movimento di classi e di gruppi negli atri, approfittare delle porte eventualmente socchiuse per buttare un occhio attento all’interno. Quanti professori stanno parlando dalla cattedra? Quanti studenti stanno lavorando in modo attivo, in gruppo, dove si discute, si confronta, si rielabora il contenuto delle materie?
Intervistare un ragazzo o una ragazza (garantendo che non racconteremo a nessuno quello che ci dicono): chiedere quale parte del programma stanno svolgendo in questa e in quella materia, quali personaggi reali gli ha fatto incontrare la scuola, quanti tra film, rappresentazioni teatrali, concerti hanno potuto seguire. Di quali argomenti legati all’attualità hanno avuto modo di discutere. Conversare con un genitore per sapere se nella scuola del figlio lavorano bravi insegnanti e sulla base di che cosa li hanno valutati tali, se il figlio frequenta volentieri, se ha amici tra i compagni di classe.
Informarsi nel quartiere, tra la gente comune: capire se l’istituto vicino a loro funziona bene, se la scuola gode di buona o cattiva fame e perché …
Osservare una bambina della scuola primaria tutta compresa nello svolgimento del suo compito a casa. Opportunità questa che mi è capitata pochi giorni fa.
La scolaretta è china su un foglio a righe, strappato da un quadernone perché il lavoro dovrà essere consegnato alla maestra. Intavolo con lei una conversazione su ciò che sta facendo.
Il titolo del tema che sta svolgendo è “Descrivo il mio astuccio”. L’astuccio lo tiene davanti, e lo gira e rigira tra le mani per osservarlo dai vari punti di vista.
Mi torna alla mente una maestra, ma era tanto tempo fa, che io avevo giudicato frettolosamente troppo romantica. Portava in classe un mazzo di fiori, ne consegnava uno a ciascuno scolaro perché lo descrivesse nei minimi particolari. Avevo poi letto, sorprendendomi per il risultato, alcuni componimenti dei suoi bambini.
Quante cose belle e gradevoli si possono descrivere, che non siano un astuccio?
C’è tutta la natura a disposizione: i fiori, gli animali, il cielo e la forma delle nuvole, la pioggia e il sole. Ci sono le persone, gli animali, la casa, la propria cameretta. Una fotografia, una cartolina (sempre che qualcuno ne spedisca ancora qualcuna), un gioco in cortile, la maglia della squadra preferita.
Chi di noi adulti da bambino non si è sbizzarrito nei classici temi inserendoci fantasie grandi e piccole che li rendevano poco verosimili ma almeno piacevoli?
Siamo cresciuti esercitandoci nella retorica di componimenti dai titoli come “Il giorno più bello della mia vita” e quello più triste, la festa della mamma e quella del papà, il lavoro del babbo, cosa farò da grande. Argomenti che comunque mantenevano un legame vivo e diretto con le nostre esperienze di vita.
La scuola di oggi spesso dimentica la regola basilare dell’apprendimento: si impara se si è interessati, se c’è un legame tra ciò che “si deve” apprendere e ciò che si sente, se chi ci educa riesce a far nascere “dentro” il desiderio di conoscere e il piacere di imparare.
La bambina intanto scriveva e descriveva. Girava e rigirava l’oggetto del suo compito nello sforzo di cogliere quanti più elementi possibile. Con destrezza e con mio grande stupore ha riempito l’intera pagina.
Mi sono chiesta perché talvolta la scuola non si preoccupa di essere noiosa, ripetitiva e astratta. Perché sceglie di curarsi più dell’esercizio mentale e meno dell’emotività di chi apprende. Come mai non si pone il problema di parlare “anche” al cuore dei soggetti che educa.
Teme che sia inutile e magari anche dannoso rendere più gradevole e lieve l’apprendimento.
Talvolta.
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