La storia di cui vorrei parlare potrebbe sembrare, a prima vista, una storia normale. O meglio: una storia normale, pur nell’eccezionalità del contesto in cui si è consumata.
È la storia di un giovane italiano nato nel 1923. Il padre, militare di carriera, gli aveva dato il nome del nonno: Giorgio. Trascorre l’infanzia in Calabria, affidato allo zio paterno, sposato ma senza figli. Morto lo zio, raggiunge il padre ed il resto della famiglia a Roma. Qui frequenta il liceo classico.
Come in infinite altre storie tutte simili, tra i banchi di scuola coltiva quelle amicizie destinate a durare nel tempo. E dopo molti anni, i suoi vecchi compagni lo ricorderanno come un ragazzo brillante, intelligente, generoso. Tuttavia, per gli amici del liceo, il passato di Giorgio sembra circonfuso da un alone di mistero, alimentato dalla sua ritrosia a raccontare di sé.
Tra i banchi di scuola inizia a prendere forma un certo senso di opposizione nei confronti del fascismo. E come per molti altri, fu probabilmente l’insegnamento del professore di Filosofia e Storia ad alimentarlo. Pilo Albertelli, si chiamava quel suo insegnante, che, nel 1942, avrebbe contribuito alla nascita del Partito d’Azione. Albertelli avrebbe poi operato attivamente contro l’occupazione tedesca: arrestato dalla famigerata Banda Koch, un gruppo di spietati criminali fascisti, fu sottoposto a sevizie e, il 24 marzo del 1944, fu prelevato dal carcere romano di Regina Coeli per essere poi assassinato, insieme ad altre 334 persone, in quella che verrà ricordata come la strage delle Fosse Ardeatine.
Ma, oltre all’esempio di Albertelli come pure di altri suoi docenti, il sentimento antifascista di Giorgio viene coltivato con le letture e, come per molti altri di quella generazione, saranno le pagine di Benedetto Croce a stimolare in lui riflessioni nuove (per un italiano nato nel 1923) intorno all’idea di libertà.
Dopo il liceo, Giorgio prosegue gli studi iscrivendosi alla facoltà di Medicina. Intanto, la guerra, fino ad allora lontana dalla Capitale, si manifesta ai romani in tutta la sua capacità distruttiva: il 19 luglio del 1943, Roma subisce il suo primo bombardamento aereo. Poco più di una settimana dopo, Mussolini viene sfiduciato dal Gran Consiglio del fascismo e poi arrestato da quel re, che, sino a quel momento, era stato il suo sponsor principale.
La famiglia di Giorgio si trasferisce in Sabina, poiché la loro abitazione era stata danneggiata dalle bombe. Vi rimane sino all’8 settembre. A questo punto, il giovane studente universitario, decide di dare il suo attivo contributo alla lotta contro i nazi-fascisti, scegliendo di operare nella formazione del Partito d’Azione, dove ritrova Albertelli ed altri suoi compagni.
Dopo la liberazione di Roma, con l’arrivo delle forze alleate ai primi di giugno del 1944, Giorgio si mette a disposizione dello Special Operations Executive, agenzia segreta britannica, che faceva ricorso al sabotaggio e alla guerriglia. Dopo il necessario addestramento, Giorgio sceglie per sé il nome di battaglia Mercurio.
Prende parte alla missione Bamon, destinata alla zona di Biella. Sull’aereo da cui verrà paracadutato, viaggia anche Edgardo Sogno. Il 15 settembre del 1944, nel corso di un combattimento, il partigiano Mercurio viene ferito. Riprende l’attività qualche mese dopo, ma viene arrestato, in gennaio, nel corso di un imponente rastrellamento. Viene trasferito al Villa Schneider, la Villa Triste di Biella. Qui, al piano superiore, ha sede Radio Baita, allestita dai nazisti nell’autunno dell’anno precedente. Giorgio viene costretto a parlare dai microfoni della radio. Racconta di sé e, seppur minimizzando il suo ruolo, della sua esperienza partigiana. Ma, contrariamente a quanto gli avevano ordinato, riesce a parlare anche di libertà e della sua Patria, l’Italia, per la quale sogna un futuro diverso e migliore.
Da Biella, viene poi trasferito nel carcere di Torino e successivamente avviato al lager di Bolzano, nel sobborgo di Gries. Il 30 aprile del 1945, il campo di Bolzano viene consegnato alla Croce rossa internazionale. Giorgio si rifiuta di essere trasferito in Svizzera e decide di incamminarsi verso sud. In Val di Fiemme cade vittima di una delle ultime stragi naziste. Viene assassinato insieme ad una ventina di altre persone in prossimità di Stramentizzo il 4 maggio del 1945.
È una storia, come si vede, non diversa da molte altre tragiche storie di Resistenza. Cosa la rende diversa? Il fatto che per molto tempo dopo la sua morte, Giorgio Marincola è stato considerato di volta in volta un ufficiale o un medico «sudafricano» oppure un partigiano «negro-americano di origine africana». Aveva infatti la pelle nera. Era nato in Somalia, nella Somalia italiana, a nord di Mogadiscio, dal padre, Giuseppe, e dalla madre Aschirò Hassan. Come pure sua sorella Isabella. Erano entrambi il risultato del dominio coloniale italiano in quelle terre. Portati con sé in Italia dal padre, ma senza la madre naturale. Erano «meticci», come li dichiarava la propaganda razzista di quegli anni. Avevano il segno evidente della loro differenza nel colore della pelle. Quel colore che risultava sgradevole anche alla Chiesa e al suo papa, Pio XII, il quale, nel gennaio del 1944, inviò una comunicazione al Foreign Office, auspicando che «non ci [fossero] truppe alleate di colore tra i gruppi che potrebbero essere posti di stanza a Roma dopo l’occupazione».
Giorgio Marincola, di padre italiano e di madre somala, è stato insignito della medaglia d’oro al valor militare dal suo Stato: l’Italia. Nel 1946, l’Università di Roma «La Sapienza» gli ha conferito una laurea in Medicina “alla memoria”.
La sua storia è stata ricostruita e narrata da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, in un libro pubblicato per la prima volta nel 2008 e riproposto, in una nuova edizione aggiornata, nel 2015 dall’editore Iacobelli: Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923-1945).
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