Sabato pomeriggio, festa tra compagni di scuola.
Condizioni inderogabili: rientro tassativo per cena, conoscenza dei genitori che ospitavano, degli orari di inizio e fine, dell’ubicazione della casa, dei ragazzi invitati, e sguardo finale della mamma al look scelto all’uopo. Per l’abbigliamento, in realtà, non c’era molto da scegliere: gonna nera a tubino –ma le mamme più retrograde imponevano le pieghe – con camicetta di crêpe azzurra, rosa, giallina, crema, con o senza maniche, con o senza fiocchetti, con o senza rouches.
Anche qualche minigonna, purché appena sopra il ginocchio, cominciava a vedersi. Trucco light, ovvero una spolverata di cipria sul naso lucido e burro di cacao rosato per le labbra. Capelli lavati in casa con la camomilla per dare riflessi dorati, e se lunghi, acconciati a chignon. Da una certa età in poi, anche il giro di perle.
Per i maschi era d’obbligo il vestito scuro con cravatta, al massimo maglione giro collo con cravatta, e solo più avanti, ai tempi di Alberto Lupo, collo alto sotto la giacca –ovviamente senza cravatta-. Era quello che si chiamava “mettersi in tappo”, e devo dire che donava molto, ai ragazzi, questa “mise”.
La musica per ballare usciva da quelle scatolette di plastica coloratissime e pressoché indistruttibili che erano i mangiadischi: il mio era giallo zafferano, con il suo bel manico, la fessura per inserire i 45 giri, la manopola del volume, l’alloggiamento per le pile, e nient’altro. Il vantaggio era che si poteva trasportare anche in bicicletta o in motorino, e far funzionare sul prato, in spiaggia, nei garage e nei cortili.
Oppure si sfruttava l’hi-fi dei genitori, dopo le mille raccomandazioni del caso, e la cosa rappresentava indubbi vantaggi, visto che gli LP (i 33 giri, o i “vinile” come si dice oggi) duravano assai più a lungo dei nostri dischetti.
Ogni invitato era comunque tenuto a portare la sua collezione personale di canzoni, racchiusa ordinatamente nella valigetta porta-dischi, che non aveva però lo spazio per le copertine. Il che voleva dire, a fine festa, una ricerca affannata dei propri tesori, buttati in un mucchio sopra e sotto i tavolini, per riportarli a casa: qualcuno lo si perdeva sempre, qualcun altro lo si guadagnava. Per questo ci si rassegnava a mettere un’etichetta col nome sui 45 giri ma soprattutto sui preziosissimi long play, che tuttavia tornavano alla base con tanti bei graffi in più, regalo dei giochi di società che imponevano un uso sconsiderato della puntina (“stacca la musica, riattacca, spegni, riparti”)
Le feste in casa erano una delle poche occasioni per stare insieme maschi e femmine, separati a scuola, in chiesa, negli scout, negli oratori. Pochi altri spazi si stavano aprendo proprio in quegli anni, come gli incontri e i raduni di Gioventù Studentesca (“tutti insieme, che vergogna!”) e i primi timidi esperimenti di classi miste alle superiori (nella mia sarebbero capitati quattro maschietti con una ventina di ragazze!).
E quando dai twist gli shake i giochi e le tartine, si passava ai lenti, mamma mia che batticuore, se a invitarti era proprio quello lì, quello per cui palpitavi e arrossivi, che fingevi di snobbare.
E se ti prendeva la mano, ti sfiorava la guancia, oh allora la festa era proprio riuscita.
Alle feste ci si andava dunque per ballare, per giocare, per chiacchierare, ma anche per flirtare, o almeno provarci. Quando le luci si smorzavano e si attaccava con i lenti, i cavalieri si facevano più vicini, le guance si sfioravano, ci scappava qualche bacetto e qualche frase compromettente. E i giochi di società erano ancora più galeotti: mosca cieca, il giro della bottiglia, il ballo della scopa, il gioco delle sedie, sembravano fatti apposta per gettarti nelle braccia – o in braccio – al tuo ragazzino del cuore, quello per cui palpitavi in segreto e che avresti sognato poi per tutta la settimana.
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