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Politica

L’EREDITÀ DEL CAPO CARISMATICO

CAMILLO MASSIMO FIORI - 10/03/2012

Max Weber, uno dei più grandi studiosi di scienze sociali del Novecento, elaborò la teoria del “capo carismatico” anticipando l’ascesa di personaggi anonimi e insignificanti della società civile che seppero imporsi all’attenzione e alla approvazione delle masse ed emergere sulla scena pubblica.

Lenin con il suo ritorno in Russia, Hitler prima dell’avvento al potere e Mussolini insediato al governo dalla monarchia furono “capi carismatici” che dall’anonimato ascesero ai vertici della politica in ragione della loro intrinseca personalità.

“Carisma” che in greco significa “grazia divina” sta ad indicare la capacità seduttrice di alcuni “capi naturali” che vengono spontaneamente riconosciuti del popolo come delle guide politiche autorevoli.

Il potere carismatico non dispone, almeno allo “stato nascente”, di aiuti esterni ed istituzionali ma si impone naturalmente all’ammirazione, al consenso e all’obbedienza da parte della gente.

Il potere del “capo carismatico” è spirituale ed emerge nei momenti bui della storia, nelle punte epocali di grave crisi, nelle fasi di transizione sociale e di mutazione antropologica delle persone, quando vengono meno i riferimenti valoriali tradizionali.

Più recentemente per spiegare l’apparizione e la fulminea affermazione della Lega è stata rispolverata la teoria weberiana; anche Bossi come i predecessori viene dal nulla; nella sua vita precedente non aveva fatto alcunché di rimarchevole; ciò nondimeno ha beneficiato di una corrente popolare che si è riconosciuta nel suo messaggio e, soprattutto, nella carica emotiva che ha saputo trasmettere attraverso la sua fisicità. A differenza degli altri, che nel bene e più spesso nel male hanno fatto la storia, il “leader padano” ha alimentato soltanto la cronaca e il folclore. C’è una tragica e abissale diversità di statura tra i capi dei totalitarismi moderni e il fascino casereccio di un personaggio che ha frequentato i bar di provincia e le aule parlamentari senza mai cambiare il suo pensiero, fanciullesco e immaginifico, e il suo linguaggio violento, ripetitivo con punte di scurrilità.

Se la storia da tempo ha dato un giudizio negativo sui dittatori del Novecento, l’opinione pubblica corrente è ancora incerta tra la dimensione carismatica e quella folcloristica ed è ancora divisa tra quelli che considerano Umberto Bossi un capitano del popolo e altri che lo giudicano una maschera della commedia italiana dell’arte.

È un fatto che la sua parabola è alla fine perché il carattere fondamentale del “carisma” è la provvisorietà: vent’anni per Mussolini, dodici per Hitler, sei per Lenin. La deludente prova di governo locale e nazionale, la progressiva debilitazione fisica del “leader”, l’isolamento dopo la rottura con Berlusconi, le lotte fratricide tra il “cerchio magico” fedele a Bossi e i “barbari sognanti” di Maroni hanno fortemente intaccato il mito della unicità leghista. La trasformazione di leadership carismatica in leadership istituzionalizzata ma anche dimezzata, è una diluizione e una adulterazione del movimento popolare che si ispira al capo.

La Lega ha coltivato l’idea che fosse possibile ridimensionare lo Stato moderno proprio in una fase storica in cui i bisogni pubblici sono immensi e crescenti; pubblico non è sinonimo di inefficace, anzi l’attuale crisi economica è stata originata in America dalla erosione del “New Deal”, il sistema di sicurezza sociale. Il federalismo fiscale non è la risposta ma, forse, il problema perché esso ha dilatato senza controlli i centri di spesa e ha incentivato, anche nelle regioni virtuose, il costo della classe dirigente, politica e burocratica; al punto che l’apparato amministrativo di una media città del Nord eguaglia il costo di funzionamento della Casa Bianca.

Quale sarà l’eredità del leghismo? Dal punto di vista della “governance” la Lega non è riuscita, in vent’anni, a realizzare nessuna riforma, neppure quella sgangherata del federalismo fiscale e a livello locale non si è distaccata dal modello dell’ordinaria gestione dell’esistente (compresi anche fenomeni di corruzione riconducibili al suo personale).

Sul piano culturale non c’è dubbio che la Lega abbia contribuito ad innalzare il tasso di individualismo degli italiani; il suo localismo ha incrinato il senso della coesione nazionale e l’ossessione identitaria, basata sulla convinzione della superiorità antropologica dei bianchi settentrionali, ha risvegliato in alcuni strati del nostro popolo mai sopite tensioni razziste.

Grazie ai presunti “carismi” del capo, la Lega ha vissuto finora in una situazione di sospensione di giudizio; gli “inviati” sono giudicati sulle aspettative che suscitano piuttosto che sulle realizzazioni concrete: se le cose non vanno bene la colpa è sempre degli altri, dei “complotti” che la Lega ha il dovere di smascherare di fronte al popolo. Con il ridimensionamento di Bossi e la prevedibile sua prossima uscita dalla scena politica, la Lega perde i vantaggi dello “stato nascente”, del momento magico della rivelazione ai suoi acritici adepti e diventa un partito come tutti gli altri.

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