Nel corso di quarantacinque anni d’insegnamento/apprendimento, coronati dalla bella benemerenza che mi è stata concessa per “eccellenza pedagogica,” ho potuto constatare che la ricerca di essere un insegnante creativo, che riflette sulla propria attività didattica quotidiana, intenzionato a formulare proposte pedagogico-didattiche, per adeguare la scuola nella quale insegna alle esigenze dei tempi nuovi, è sempre destinata a incontrare ostacoli. Nel tentativo di adeguare la mia professionalità docente alla domanda formativa e alle esigenze sempre più complesse di una società in profonda trasformazione, com’era quella della metà del secolo passato, ho dovuto fronteggiare, raramente sostenuto da una struttura scolastica, per lo più avvertita come siderale e assente, non poche resistenze, spesso tra irridenti e frustranti incomprensioni, chiusure e rifiuti immotivati a ogni mio tentativo e forma di rinnovamento. Amarezze, notti insonni passate a riflettere e produrre proposte e documenti ricchi d’implicazioni pedagogiche teorico-pratiche, realizzati per dare risposte ai problemi concreti che via, via si presentavano, ma che spesso rimanevano chiusi nei cassetti, non degnati nemmeno di uno sguardo fugace, salvo a essere riscoperti ed adottati poi a distanza di venti anni, com’è accaduto alle proposte da me prodotte negli anni ’80 per l’insegnamento dell’italiano come L1 e L2, approvati all’unanimità a Bruxelles, un paio di anni fa.
L’aneddoto che racconterò, avvenuto in quel “ mondo a parte,”rappresentato dalla Scuola Europea di Varese, dove ho insegnato per molti anni, vuole essere una dimostrazione tangibile e una testimonianza diretta delle difficoltà che incontra chi vuole dare il suo contributo per innovare e/o riformare finalità, contenuti e metodi d’insegnamento. Quando nel 1977 iniziai a insegnare alla Scuola europea di Varese, l’insegnamento della morale laica, nella sezione italiana, a differenza di quello che accadeva nelle altre sezioni straniere, aveva avuto una vita stentata, anche in seguito alla morte prematura di un valido collega che l’impartiva. Gli studenti erano costretti, in mancanza di altro, a seguire l’insegnamento della religione cattolica.
Questa situazione stava diventando insostenibile per molti alunni e genitori che cominciarono a investire il direttore della scuola e gli ispettori, rivolgendosi anche al sottoscritto, per chiedere un corso continuativo di morale laica. Avvenne così che un giorno fui convocato in direzione e il direttore mi disse che i genitori avevano fatto un’ esplicita richiesta di un corso regolare di morale, facendo anche il mio nome e che lui era intenzionato a soddisfare la domanda, ma aveva bisogno che io aderissi e fossi d’accordo. Il direttore aggiunse anche che io avevo tutti i titoli specifici per insegnarla e mi considerava una persona disponibile e versatile. Gli dissi che mi sembrava una buona cosa dare una risposta positiva alle richieste e alle esigenze degli studenti e dei genitori e anche giusto uniformare l’insegnamento della sezione italiana a quelle delle altre. Così lasciai l’insegnamento di alcune ore di materie considerate “importanti” e presi delle classi di morale.
Il mio corso, incentrato su tematiche vicine al vissuto degli adolescenti e con l’ausilio dei sussidi audiovisivi, conquistava sempre più nuovi studenti, e mentre le classi di quelli che seguivano il corso di religione tornavano a valori normali, quelle di morale aumentavano sempre di più, tanto che fu necessario trovare altri due colleghi della sezione italiana, cui affidare le ore eccedenti che non potevo ricoprire.
Un giorno mi chiamò il direttore, senza informarmi del motivo della convocazione, e fattomi entrare mi comunicò con gli occhi bassi e senza guardarmi in faccia, che a Bruxelles ci sarebbe stato uno stage di insegnanti di morale per l’aggiornamento dei programmi armonizzati della materia e che ormai la sezione italiana aveva tutto il diritto di inviare un proprio rappresentante e voleva sapere se ero disposto a parteciparvi. Dissi subito di sì anche perché avevo elaborato, in quella fase d’insegnamento della materia, una serie di proposte teorico-pratiche per l’aggiornamento e la riforma del programma, che ritenevo essenziali e non più eludibili. Del resto ero stato l’unico insegnante tra tutti quelli della Scuola Europea di Varese a promuovere un’inchiesta tra gli studenti italiani e stranieri su una tematica prettamente morale e civica, quale quella sulla questione della “paghetta”, dell’argent de poche. I risultati del sondaggio unitamente alle considerazioni teoriche connesse erano state pubblicati con un certo rilievo sul Bollettino pedagogico delle Scuole europee.
Con la mia risposta affermativa mi aspettavo che la cosa fosse conclusa e positivamente. Invece vidi che l’atteggiamento del direttore era quello di una persona visibilmente contrariata e per nulla contenta della mia disponibilità e della mia risposta affermativa. E mentre spostava delle carte, volgendomi la schiena disse: “Ma voi siete in tre ad insegnare morale e dovreste discutere e decidere tra di voi chi andrà a Bruxelles”. Allora molto sorpreso, e anche dispiaciuto per il modo come venivo trattato e ricompensato per la disponibilità sino ad allora dimostrata nei confronti della direzione, dissi non senza in certo imbarazzo, che ero il docente che aveva più ore d’insegnamento di morale, nonché l’unico ad avere fatto ricerche e proposte in merito e pubblicato anche qualche saggio, aggiungendo in oltre che ero l’unico ad essere laureato ed abilitato in materie pedagogiche e filosofiche. A mio modesto avviso i miei requisiti avrebbero dovuto avere il loro peso nella decisione di chi avrebbe dovuto rappresentare la scuola allo stage in Belgio.
Per tutta risposta mi sentii dire: “Ma professor Vitelli, al corso si parla francese!” E pensare che nel mio dossier e nei rapporti da lui redatti alla voce “conoscenze di altre lingue oltre la propria”, era scritto: francese (buona) tedesco ed inglese (media), lingue che gli esaminatori del Mae avevano testato adeguatamente con un colloquio in lingua all’atto del concorso. Un’umiliazione peggiore e così gratuita, detta tra l’altro da un nativo francofono, insegnante di lingua francese non l’ avrei potuta ricevere. Mi lasciò dicendomi che avrei dovuto parlare con gli altri due colleghi cosa che feci, dicendo loro che ero intenzionato ad andare perché avevo elaborato delle proposte concrete per la riforma dei programmi di morale, che avrei voluto discutere nello stage con colleghi e specialisti. Loro mi risposero che per questa volta sarei andato io e un’altra volta loro. Tornai molto amareggiato dal direttore e gli comunicai che i colleghi avevano accettato per quella volta che fossi io ad andare al corso.
Arrivato in treno a destinazione, in una struttura molto bella e accogliente, trovai a cena il collega franco-belga, coordinatore degli insegnanti di morale della scuola di Varese; l’indomani sarebbe arrivato in aereo il nostro direttore. Nel pomeriggio del giorno dopo, il convegno entrò nel vivo con la relazione del viceministro della cultura: “La crisi dei valori tradizionali impone la creazione di un sistema di valori per il secondo Millennio”. Tenne naturalmente la conferenza in francese per oltre un’ora, alla presenza di un folto gruppo d’insegnanti e direttori delle varie scuole europee; c’era anche naturalmente il direttore di Varese. Ascoltai con molta attenzione tutta la conferenza e mi accorsi con un certo disappunto che l’oratore non aveva affatto trattato né svolto l’argomento preannunciato, ma che era uscito fuori tema. Alla fine della sua esposizione il coordinatore dei lavori disse: “Yat-il quelqu’un parmi vous qui prend la parole?”
Nessuno si faceva avanti. Tanto meno il mio direttore che, pure prima di diventare direttore della scuola Europea di Varese, era stato anche insegnante di morale, né il coordinatore degli insegnanti varesini di morale, né gli altri presenti alla conferenza. Aspettai ancora un po’, mi alzai, chiedendo la parola, che mi venne subito accordata. Parlai in francese per poco più di dieci minuti, dicendo che avevo ascoltato con grande attenzione tutta la conferenza, ma che a me sembrava che il tema non fosse stato adeguatamente trattato né nella pars destruens, né in quella construens. E conclusi dicendo che non avevo sentito delineare la nuova tavola di valori per il Secondo Millennio e dissi quali punti, secondo me, il relatore avrebbe dovuto trattare, dando anche alcune indicazioni in merito. Un intervento il mio non facile, né per il contenuto e soprattutto per la forma, ma fu accolto con rispetto e silenzio, ma anche alla fine con un lungo applauso. Questo mi ripagò in parte delle mortificanti umiliazioni che avevo dovuto subire a Varese per cercare di portare il mio contributo in Belgio. Dopo il mio intervento mi aspettavo dal relatore una risposta interlocutoria e un po’ rabattata, invece con mio grande stupore: Il viceministro alzandosi in piedi disse: “Devo proprio ringraziarla signor Vitelli, lei mi ha fatto capire che non ho trattato affatto il tema!” Raramente mi era accaduto di trovarmi di fronte a tanta onestà intellettuale e a tanto spessore culturale!
E ricominciò daccapo per oltre un’ora a fare quella conferenza e ad indicare quei nuovi valori prima non delineati, suscitando un vivo apprezzamento tra gli astanti.
I lavori nello stage proseguirono nei giorni seguenti nelle commissioni di lavoro, dove portai il mio contributo e le mie proposte orali e scritte, che furono ampiamente discusse, apprezzate e recepite nei documenti finali.
L’ultima sera, prima della partenza, ci fu una cena ufficiale organizzata dal viceministro e dalla sua gentile consorte. Dopo il brindisi di commiato tutte le delegazioni si alternarono per i saluti di rito al tavolo della presidenza. Quando venne il turno di Varese, passò per primo il coordinatore di morale della nostra scuola; e il viceministro e la moglie rimasero seduti, gli strinsero la mano ed accennarono con il capo ad un saluto di pura cortesia. Passò il nostro direttore, tutto compreso nel suo atteggiamento ossequioso e rispettoso; e il viceministro e la moglie rimasero seduti e dissero solo: “Bon voiage, monsieur le directeur, e bon retour a Varese”. Venne il mio turno e con grande sorpresa vidi scattare in piedi il viceministro e signora: “Signor Vitelli – disse il presidente – nous vous remercions de tout cœur pour la précieuse contribution que vous avez donné à notre conférence. L’Ecole Européenne de Varèse peuvent être fiers d’avoir parmi ses professeurs une personnalité comme la vôtre, bon retour en Italie».
Mi girai verso il direttore e dal suo viso, contratto e scuro, capii che forse lui, tentando di escludermi dal convegno, proprio quella scena avrebbe voluto risparmiarsi. Pensai in fondo che l’umiliazione che mi era stata inflitta, prima della partenza da Varese, era stata ampiamente cancellata dall’inaspettato riconoscimento di quell’alta personalità della cultura europea, che era il vice-ministro e che tutto quello che era accaduto prima rientrava nel prezzo che tutti più o meno, in un modo o nell’altro, siamo tenuti a pagare, perché il rinnovamento non è indolore ed esige dei prezzi.
Era una bella notte ottobrina, piena di stelle e con la valigia in mano mi diressi verso il taxi, che mi stava aspettando per portarmi alla stazione. Salii sul treno per l’Italia, non prima di aver telefonato felice a mia moglie da una cabina telefonica. Allora i cellulari non erano così diffusi.
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