Può una festosa cerimonia di laurea in architettura trasformarsi in un pomeriggio di gravi disagi e in un’occasione di panico? Spiace porsi questa domanda parlando del Politecnico di Milano, un glorioso istituto che ha fatto la storia dello sviluppo economico e della ricerca scientifica in Italia e nel mondo. Un ateneo fondato nel 1863, primo Politecnico d’Italia, a cui sono legati – fra i tanti – i nomi di Camillo Boito, Gio Ponti, Gae Aulenti, Gino Cassinis, Renzo Piano, Enrico Forlanini e Giulio Natta, premio Nobel per la chimica 1963. Ma se la parola architettura significa “elaborazione artistica degli elementi strutturali, funzionali ed estetici della costruzione”, è giusto interrogarsi.
La settimana scorsa, giorno di laurea. La discussione delle tesi è in programma a partire dalle nove del mattino, le proclamazioni sono previste nel pomeriggio. Impossibile definire gli orari con più precisione perché l’elenco dei laureandi è lungo, lunghissimo, diverse decine di studenti. I problemi sorgono dopo pranzo quando nell’aula al terzo piano dell’edificio Nave cominciano a confluire le famiglie dei parenti, padri, madri, fratelli, nonni. I primi che arrivano prendono posto sui pochi sedili disponibili, gli altri via via affollano i corridoi, tracimano sui ballatoi e i pianerottoli, si accampano sulle scale, si siedono per terra sui pavimenti sporchi e polverosi. Da quanto tempo non passano la ramazza?
Fa caldo, manca l’aria e non si respira. Si suda copiosamente. Non esiste una sala d’attesa. Non c’è da sedersi. I più fortunati si affacciano alle finestre dei mezzanini. Tra i parenti ansiosi di assistere alla cerimonia persone anziane si lamentano che le gambe dolgono, che i piedi bruciano. Una donna in camicetta di seta si toglie le scarpe di vernice, altri si rialzano dai gradini con i pantaloni e la giacca sporchi. Ognuno cerca di ritagliarsi un angolino dove “sopravvivere” ma è dura. L’ansia cresce. I docenti sono rinchiusi nell’aula per decidere i voti e nessun segnale filtra all’esterno. Il caldo è implacabile e la macchina automatica al piano che eroga le preziose bottigliette d’acqua minerale è esaurita da un pezzo. Nei corridoi non si va più avanti né indietro. Azzardarsi a fendere la folla ferma in piedi, bloccata, richiede coraggio. Fuori discussione la possibilità di farsi largo e raggiungere la toilette. Bisogna resistere.
Non c’è l’aria condizionata. Ci si chiede se all’interno i prof siano consapevoli di quel che avviene fuori. Chi si illude di sfuggire alla calca si spinge sulle scale di sicurezza e si abbandona esausto sui gradini, accovacciato fra la gente in piedi, ma la sensazione di essere bloccata, di non potersi muovere, di non potere uscire all’aria aperta provoca a una signora una crisi di panico. Possibile che nel cuore del Politecnico, nel “think tank” dei professionisti dell’architettura, non ci si ponga il problema di organizzare meglio l’utilizzo degli spazi interni e rendere sopportabile l’attesa dei visitatori? Accatastati sul pavimento, i plastici e gli elaborati di vecchie sessioni d’esame attendono di essere smaltiti dando un’idea di trascuratezza. E rubano spazio alla folla.
Volano battute sui gironi danteschi. Finalmente si diffonde la voce che le porte dell’aula sono state aperte e la notizia si propaga, di bocca in bocca, fino agli “accampati” sulle scale di servizio. Volti paonazzi, occhi stralunati. Davvero? Non ci si crede. Nell’aula un docente pronuncia qualche parola prima di leggere i voti dei laureandi ma dal fondo non si sente. Ci vorrebbe un microfono e non c’è. De minimis non curat praetor, d’accordo, non è il caso di perdersi nelle cose di poco conto. Il problema è organizzativo e basterebbe tenere il rito della proclamazione nell’aula magna o dividerla in due giorni per risolvere la questione. Ma dispiace che “nella casa degli architetti” il padiglione Nave possa dare anche solo l’impressione di essere un “elemento poco funzionale”.
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