Che Gino Bartali sia stato uno dei più grandi campioni della storia del ciclismo lo sanno o dovrebbero saperlo tutti, che sia anche stato un eroe silenzioso e straordinario della Resistenza, è noto ancora relativamente a pochi. Sarà il prossimo Giro d’Italia, in partenza il 4 maggio da Gerusalemme, a svelare definitivamente il suo profilo di “Giusto tra le nazioni” e ora anche di cittadino onorario di Israele per volontà dello Yad Vashem, il museo della Shoà. Due onorificenze di immenso valore conferite al campione toscano per aver contribuito alla salvezza di non meno di ottocento ebrei durante l’occupazione nazista dell’Italia, a cavallo tra il 1943 e il ’44. Una vicenda che si svolse per intero nella sua Toscana e con epicentro Firenze dove entrò a far parte come staffetta della rete clandestina Delasem che aveva come riferimento ultimo il Cardinale Elia Angelo Dalla Costa pure lui riconosciuto nel 2012 “Giusto tra le nazioni”.
L’obiettivo era semplice quanto difficoltoso e rischioso: fornire documenti falsi alle famiglie ebraiche braccate con feroce determinazione dai nazifascisti e da organizzazioni paramilitari a loro vicine, come quella comandata da Mario Carità, “l’Himmler italiano”, spregiudicato e feroce torturatore fiorentino nelle cui mani il campione cadde per qualche giorno. Ma chi meglio di un atleta come Bartali avrebbe potuto assolvere quel delicatissimo compito – deve aver pensato l’alto prelato – lui che ogni giorno si allenava per tenere vivo lo smalto di una condizione atletica penalizzata dal conflitto e dall’ovvia assenza di corse. Poi via quel corridore devoto alla Chiesa, iscritto all’Azione Cattolica, era una celebrità internazionale. Aveva già vinto due Giri d’Italia (1936 e ’37) e un Tour de France (1938), dunque non poteva destare meraviglia né sospetti particolari vederlo scivolare su e giù per le colline toscane. Semplicemente si allenava il Gino, pensavano tutti. E che altro doveva fare uno che sulla carta d’identità alla voce professione aveva scritto: corridore ciclista? Pedalava per chilometri e chilometri, la mente attraversata da oscuri pensieri per i rischi cui esponeva la moglie Adriana e il piccolo Andrea, per poi entrare senza dare nell’occhio in conventi e badie disseminate nelle campagna struggente ed elegante della sua terra. Lì con mani esperte smontava la bici da corsa e dai tubi del telaio estraeva i documenti da consegnare ai cittadini ebrei bisognosi quanto meno di un’altra identità per cercare di salvare la vita. Mangiava qualcosa poi tornava verso casa stando attento a non rifare la stessa strada sempre per dare nell’occhio di fascisti e tedeschi il meno possibile. Del resto per lui aggiungere chilometri non fu mai un problema. “Semmai per il Gino le corse erano sempre un po’ troppo corte, lui carburava lentamente ma poi poteva andare quasi all’infinito “mi raccontò anni fa il suo più fedele gregario, il velocista siciliano Giovannino Corrieri.
Rientrava a casa per ripartire di lì a qualche giorno per altre delicate missioni a pedali. Una storia grandissima nella sua apparente semplicità che Bartali tenne gelosamente nascosta per decenni finché qualcosa affiorò nelle ricerche di uno studente universitario – ciclista che su lui fece la tesi di laurea. Tre anni fa su questa incredibile vicenda di generosità, riserbo e rigore civile ha scritto un bel libro Oliviero Beha morto troppo presto proprio lo scorso anno. “Un cuore in fuga”, edizioni Piemme, ricostruisce l’intera vicenda consegnando ai lettori un Bartali finalmente spogliato dalla riduttiva rivalità con Coppi e restituito alla sua più autentica dimensione umana e spirituale. Scrive l’autore: “Era un grande del Novecento, tale probabilmente a sua insaputa”.
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