La visita di Libeskind a Varese ha riscosso notevole attenzione in ambito politico e della professione. Che fa seguito all’attenzione dedicata alla sua esperienza di progettista illustrata al MaGa di Gallarate. Come per tutte le cosiddette ‘archistar’, la sua è una storia di realizzazioni che vogliono offrire immagini sorprendenti
Non costruiscono le città, non la arrichiscono di significati, quando non siano commissionate come funzione specifica come nel caso della progettazione di alcuni musei militari e civili realizzati che esibiscono una particolare capacità creativa.
Ma altra cosa è il progetto, il ‘rinascimento’ desiderato di una città.
La città, luogo di una comunità di persone, ha bisogno di una sua adeguata organizzazione che favorisca le relazioni sociali, la partecipazione di ciascuno al comune progetto di vita.
Se i musei di Libeskind sono luoghi significativi di una storia anche drammatica che non può essere dimenticata, lasciano perplessità, tuttavia, le qualità dirompenti dei progetti, che esaltano la firma dell’architetto più che il significato che l’opera deve esprimere.
Affidare alle ‘archistar’ il futuro delle nostre città è pura illusione.
Se il loro sviluppo fino ad oggi è stato prevalentemente caratterizzato da edificazioni senza qualità, se il consumo di suolo è stato notevole e inaccettabile, occorre considerare con urgenza nuovi orientamenti che dobbiamo assumere per il loro futuro, che non può essere semplicisticamente affidato a illustri firme.
Certamente diversa è la condizione attuale dello sviluppo di Varese rispetto a quella di Milano e dell’Alto milanese, e diversamente va affrontata la sua realtà.
Ma l’obiettivo comune è quello della riorganizzazione del tessuto urbano esistente e delle contenute espansioni ammissibili, puntando al rafforzamento delle relazioni sociali articolate con riferimento ai luoghi significativi civili e religiosi.
Occorre anche tener conto delle presenze urbane storiche che sono ancora riferimenti di vita necessari e significativi.
Il caso Varese ci deve fare riflettere circa la sua reale consistenza urbana.
Ho ricordato altre volte che già vent’anni fa durante la formazione del Piano regolatore (come allora si chiamava la pianificazione urbanistica) la società Oikos di Bologna, responsabile della sua stesura, metteva in evidenza come di fatto Varese non poteva essere soltanto circoscritta dai suoi confini comunali con una popolazione di 80mila abitanti, ma doveva necessariamente essere considerato il contesto territoriale a corona del suo lago e allungato nelle sue valli adiacenti, comprendenti una popolazione complessiva di oltre 170mila abitanti.
In questo contesto doveva e deve tuttora considerarsi la città. La Varese reale non è quindi una città piccola, ma una realtà urbana e ambientale complessa che non può essere governata da improvvisazioni.
Se la città è il luogo di relazioni sociali, il ‘rinascimento’ auspicato da Libeskind non può affidarsi a qualche felice creazione architettonica che tuttavia è sempre necessaria per interpretare, dare conveniente rilievo al ruolo di una istituzione, di una presenza rappresentativa e/o simbolica.
L’impegno quindi non è solo affidabile alla pur significativa espressione di un’architettura, perché è richiesta oggi una visione culturale complessiva, un progetto politico nel quale questa si può esprimere.
Parlare di ‘scelte coraggiose’ incidenti, affidarsi genericamente a una partnership fra pubblico e privato non considera quindi convenientemente i problemi del nostro futuro. Perché non è ancora condivisa nell’Area varesina la consapevolezza della sua realtà disarticolata che procede giorno dopo giorno senza un futuro comune desiderato.
Con una volontà permanente di progetto e anche con un luogo che rappresenti questa unità condivisa. Con la consapevolezza della necessità di relazioni socio-economiche nuove e più incidenti con l’area Alto milanese e con il Canton Ticino.
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