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Cultura

BLUMENBERG E LA METAFORA

LIVIO GHIRINGHELLI - 20/04/2018

blumenbergDi origini ebraiche, Hans Blumenberg (1920-1996) consegue la maturità nel 1939 presso il Kathaerineum di Lubecca (lo stesso istituto frequentato da Thomas Mann); compie studi di filosofia dal 1939 al 1941 a Paderborn, poi a Francoforte. Viene internato in un campo di lavoro. Dopo il 1945 si occupa di filosofia, germanistica e filologia classica presso l’Università di Amburgo e nel 1947 consegue il dottorato. Nel 1950 si abilita alla docenza presso l’Università di Kiel e nel 1958 diviene straordinario ad Amburgo, ordinario a Giessen nel 1960 ; si trasferisce a Bochum nel 1965 e dal 1970 a Münster sino al pensionamento nel 1985.

Opera sua fondamentale i Paradigmi per una metaforologia (1960). Il termine deriva dal greco metaphoré, trasloco, trasporto, significa congiungere mediante dislocazione ciò che è distante e si configura come ornamento retorico o vestibolo del pensiero concettuale. Ci sono metafore morte, diventate concetti (catacresi). Il linguaggio normale o quello poetico producono invece continuamente metafore vive (il cui ruolo è stato sottolineato da Paul Ricoeur) e gettano ponti arditi tra nozioni che abitualmente non vediamo unite. La metafora, trasposizione analogica di un’idea, produce conoscenza, perché offre l’idea di ciò che l’oggetto rappresenta per noi in conformità ai nostri scopi pratici; ma per le idee di ragione (Dio, storia, anima. mondo) non vi può essere alcuna intuizione adeguata ; ad esse corrisponde soltanto una rappresentazione, che con queste idee ha in comune non il contenuto, bensì la forma della riflessione.

C’è chi considera la metafora una forma inferiore e spuria di pensiero, che funge da battistrada al concetto puro, chiaro e distinto. Blumenberg invece cerca di spezzare il nesso istituito tra pensiero aconcettuale e pensiero concettuale, collegando le metafore all’husserliano mondo della vita. Restituisce loro autonomia. Mentre i concetti hanno a che fare con la coscienza focalizzata, le metafore esprimono per lui orientamenti, modalità di rivolgerci all’esperienza, non destinati a precipitare in cristalli concettuali.

I concetti puri scontano il privilegio della loro chiarezza e univocità perdendo la molteplicità di sensi del mondo della vita. Per ciò che concerne la conoscenza le metafore hanno il vantaggio di avere un ambito di riferimento estremamente vasto, di potersi, al limite, connettere con l’intera estensione del mondo della vita a prezzo però di una maggiore imprecisione. Perciò si tende ad escluderle dalla filosofia. Ma nemmeno il pensiero più astratto può farne a meno. Ci sono metafore assolute, indeducibili e irriconducibili ad altre metafore o idee e le metafore derivate. Quelle assolute esprimono orientamenti non scomponibili ulteriormente.

Estremamente significativa è la metafora della navigatio vitae. C’è chi vuole essere attore della propria esistenza, chi preferisce invece fare la parte dello spettatore piuttosto che dell’attore. Sorge l’idea che la rotta stessa, la navigazione intrapresa, porti consiglio, che si formi, grazie ad essa, un’esperienza. In tedesco Erfahrung contiene la radice di fahren, viaggiare, fare esperienze e per estensione navigare. Paradigma ne è Odisseo, che indirizza la rotta attraverso tutti i pericoli, gli ostacoli che Dei e uomini gli frappongono.

La rappresentazione differisce nel tempo, nelle epoche e ha formato la nostra tradizione e cultura, con modificazioni degli orizzonti di senso, in cui l’uomo comprende se stesso e il suo rapporto col mondo. La luce si presenta come metafora della verità, il naufragio come metafora dell’esistenza, il libro come mondo della natura (La leggibilità del mondo, 1981).

Mentre nel passato l’esperienza si accumulava, oggi gli insegnamenti del passato perdono di peso, rendendo indeterminabili anche le aspettative del futuro. L’età moderna ci ha messo di fronte a soglie epocali: l’uomo copernicano, la fine delle sicurezze teologiche fondate sulla Bibbia, il metodo cartesiano, la Riforma protestante. Oggi si può constatare la ribellione e l’autoaffermazione dell’uomo rispetto alla sottomissione all’autorità. Si assiste al desiderio sfrenato del nuovo, ai viaggi di scoperta in terra incognita. C’è come una circumnavigazione del globus intellectualis al limite dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande. Anche il mito oggi costituisce per Blumenberg una strategia per fare fronte all’ignoto, per resistere all’angoscia amorfa e senza nome provocata negli uomini dallo strapotere della realtà. Il mito depotenzia il suo “assolutismo” inventando spiegazioni per ciò che è inspiegabile, così da rendere il mondo più familiare.

C’è bisogno di una fenomenologia della storia, che renda possibile la comprensione delle transizioni epocali in opposizione al tema della secolarizzazione. I sistemi concettuali della modernità non vengono considerati qualcosa di nuovo, ma come una semplice mondanizzazione dei principi teologici della Scolastica; invece la transizione nella continuità dei processi storici non viene assicurata dalle persistenze di una sostanza ideale nelle sue metamorfosi, bensì dalla rioccupazione di determinati luoghi di senso (La legittimità dell’età moderna, 1966: e v. ancora L’elaborazione del mito, 1979; Naufragio come spettatore,1979).

 

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