“Inn de vess bej lὕster!” raccomandava la nonna alla domestica, intendendo le scarpe del “signore”(ovvero mio nonno): era il primo compito che aveva, arrivando al mattino per le pulizie.
Alle nostre calzature, invece, da una certa età in poi, ci dovevamo pensare noi. E si trattava di un’arte vera e propria. Spazzola per togliere la polvere, straccetto da intingere nella scatolina rotonda e piatta del lucido, strofinamento, pausa per l’asciugatura, panno morbido e peloso per ripassare, e tanto olio di gomito. C’erano poi originali varianti legate al tipo di pelle: le scarpe leggere, con la suola di cuoio, andavano lustrate sopra e sotto, e guai a non farlo, perché la suola fosse più impermeabile e non si bucasse troppo in fretta. C’erano le scarpe “belle”, di vernice nera, che andavano trattate con una speciale spazzola morbida, poche gocce di olio d’oliva su un panno di lana, e una ripassatina garbata, sperando che i graffi e le spellature si notassero un pochino meno. E qui, altro olio di gomito per asciugare l’untuosità, perché guai a sporcare le calze bianche traforate di cotone che indossavi in abbinamento.
Un’operazione “a latere”, che odiavo cordialmente, era la raschiatura delle pantofole. Ma sì, l’avrete fatto anche voi qualche volta. Le ciabattine di casa di noi bimbi erano di pelle (blu o rossa), con l’elastico cucito dalla mamma per non perderle e la suola scamosciata, un tentativo di antiscivolo che si esauriva in poche settimane: la suola infatti assorbiva la cera che senza parsimonia le casalinghe di allora spargevano sulle piastrelle, e diventava pericolosamente lucida. Allora, coltello alla mano, stando sopra il secchio della spazzatura ci si grattava via tutto lo sporco accumulato per recuperare una qualche aderenza: fino a che, gratta gratta, settimana dopo settimana la suola si assottigliava e si tagliava, e allora erano le pantofole a finire in pattumiera.
A un certo punto comparve in casa nostra una macchina lustrascarpe automatica motorizzata: una base solida e pesantissima, due spazzole rotanti ai lati, una nera e una beige, la prima per lucidare la seconda per ripassare. Schiacciavi col piede un grosso bottone nero, e l’aggeggio si metteva in funzione. Sebbene un tantino rumorosa per le ore del primo mattino, funzionava egregiamente per le scarpe da uomo; per le nostre, invece, andava a finire che lucidava anche gambe e calze, con esiti terrificanti. Rimase al suo posto, ma non venne usata quasi più.
E poi venne l’età del primo tacco: che angoscia, dover stare attenta alla ghiaia, alle griglie dei marciapiedi, al pavé, per non scorticare e spellare quel modesto tacco a rocchetto di due centimetri e mezzo che si cacciava in ogni buco possibile e immaginabile. Qui, per sistemarlo, occorreva una vera e propria abilità artigiana: lucido colorante e coprente per i graffietti, pinzetta e UHU per tirare e riattaccare i lembi di pelle sollevati, benzina Avio per togliere i baffi di colla… E il ricorso al calzolaio in casi disperati.
Molto meglio quei tacchi spartani di gomma dura che completavano le mie scarpe in stile inglese, modello Miss Marple, con mascherina sfrangiata cuciture a vista e fibbia laterale, acquistate a Milano, per le quali avevo dovuto implorare a lungo. La pelle scamosciata color tortora era meravigliosa ma tragica da pulire: spazzolino di ferro, gomma dura, gomma pane, paglietta, provai di tutto per togliere striature e sporcizia, senza mai riuscirci davvero. Ma quelle scarpe le ricordo soprattutto per la loro scomodità e durezza, che richiedevano coraggiosa sopportazione e una bella scorta di cerottini in borsa. Le avevo tanto sognate, che non potevo lamentarmi: del resto, come ripeteva la nonna, “Eh, tosa! per apparire bisogna soffrire”.
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