James Hansen (astrofisico e climatologo statunitense, dal 1981 è a capo del Goddard Institute for Space Studies della Nasa) è tra i più informati esperti del mondo occidentale sulla geopolitica e l’andamento climatico. All’inizio anno ha diramato una nota qui riassunta, molto preoccupante e allusiva delle fake news sui bombardamenti in Siria sparate da Trump, Marcon e Mayr.
Torna “l’archivio Norimberga”. Si tratta del nome gergale di un’usanza interna del Dipartimento di Stato americano che risale alla guerra nel Vietnam quando i diplomatici Usa di stanza nel Paese, vedendo come buttava, facevano accurata raccolta dei loro cablogrammi critici – e soprattutto “non partiti”, stoppati dai loro superiori – per potere dimostrare in futuro di non essere stati d’accordo con le politiche del proprio Governo nel sud-est asiatico.
Se allora la pratica – come si intuisce dallo spropositato riferimento al Processo di Norimberga contro i crimini nazisti – aveva un sapore marcatamente pacifista, allineata con la contestazione dell’epoca, rispunta ora con finalità simili ma orientamento ben diverso.
Cinquantuno diplomatici Usa di medio rango, coinvolti nella gestione della crisi siriana, hanno firmato un memorandum interno “riservato/sensibile” invitando l’Amministrazione americana a indurire – di molto, con i bombardieri – la propria opposizione al Governo siriano di Assad.
Ovviamente, qualcuno ha poi recapitato il documento al New York Times. Il testo propone di attaccare direttamente – con un approccio militare definito “muscolare” – il Governo siriano allo scopo di “rinvigorire l’iniziativa diplomatica” e di fermare la strage dei civili. Asserisce che gli Usa “non potranno contenere il conflitto con la politica attuale” e propone la collaborazione con i sauditi e gli iraniani per creare un governo siriano “di transizione” post-Assad. E gli eroi Kurdi portati a difendere Kobane e Gouda. Traditi in un pomeriggio.
Scrivono i firmatari: “È ora che gli Stati Uniti, seguendo i propri interessi strategici e convinzioni morali, si mettano alla guida di uno sforzo globale per mettere fine a questo conflitto una volta per tutte”.
La contestazione del Dipartimento di Stato alla politica giudicata eccessivamente “soft” di Barack Obama in Siria nasce con “l’inatteso volta faccia presidenziale sull’uso di Assad delle armi chimiche contro la popolazione civile”. Obama aveva – a parole – tracciato una “linea rossa” oltre alla quale il dittatore siriano non doveva spingersi senza incorrere in una terribile punizione Usa, ma alla prova dei fatti ha improvvisamente deciso di far finta di niente, lasciando il campo a Vladimir Putin con risultati meno che ottimali dal punto di vista americano, ma meno cruenti sul piano effettivo e più aperti a soluzioni diplomatiche definitive anche per i Kurdi.
La mossa, la “non mossa”, ha lasciato di stucco anche gli alleati europei, in special modo la Francia. Da allora la situazione siriana è andata di male in peggio e non sono solo i diplomatici Usa a dare non poca parte della colpa alla gestione ondivaga della Casa Bianca.
Il Dipartimento di Stato ha tuttavia fatto sapere che le feluche ammutinate non verranno punite per la loro presa di posizione, fortemente in contrasto con quella “ufficiale”. L’impennata di coraggio ha anticipato che la loro visione è in sostanziale armonia con quella dei falchi, da sempre favorevole all’approccio militare “vigoroso” come strada maestra per ristabilire la pace, o almeno il silenzio.
C’è qui una strana inversione dei ruoli. Il rozzo Donald Trump – che stilisticamente parlando dovrebbe essere quello a volere sganciare tante altre bombe – si dimostra più cauto. Non per buonismo, ma perché la sua idea neo-isolazionista della politica mediorientale è quella di tirarsi fuori da quel bordello e di lasciare che i maledetti musulmani s’ammazzino tra loro…
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