Sta diventando un’abitudine adagiare la giornata dell’Otto Marzo su figure femminili esemplari.
Il fascino dello spettacolo emotivo fornito da pentite di n’drangheta, poetesse, imprenditrici, sembra irresistibile.
Poi, però, dimentichiamo regolarmente coloro che dovremmo ricordare per avere prodotto l’idea di questa giornata: quale che sia la versione storicamente corretta – e tuttora se ne discute – la Giornata internazionale della donna deve le sue origini alle decine di camiciaie morte nell’incendio della fabbrica Triangle di New York nel marzo del 1911 e alle migliaia di donne che manifestarono contro lo Zar e contro la guerra nel marzo del 1917 a San Pietroburgo.
Non mi è chiaro se citando alcune donne che non hanno avuto e non avranno nelle cronache, credo, mai più che il nome di fantasia che qui sto per dare loro, sto seguendo la china dell’emotività.
Preferisco pensare che ci sia della razionalità nel volerne parlare. E comunque questo è ciò che l’8 marzo 2012 mi suggerisce, a loro mi fa pensare.
Due storie di questi ultimi giorni.
Maria non ha ancora quindici anni, ma capisce subito che cos’è un’udienza in cui dovrà testimoniare contro il compagno della madre. Scelgo di non mettere in piedi nessun “teatro”, sull’ “ascolto del minore”, le “figure di sostegno”, eccetera eccetera, armamentari che quando non sono davvero necessari servono ai giudici e ai presunti esperti per galvanizzare un proprio “ego” in genere parecchio sviluppato.
È bastato far uscire gli altri protagonisti del processo dall’aula prima di far entrare Maria, scambiare con lei qualche parola dopo averla fatta sedere davanti a me con le spalle a quelli che stanno per rientrare, e prima ancora dare loro la sensazione netta e immediata che non sarebbe stata tollerata nessuna deviazione dal rispetto totale di Maria.
Annuncio che porrò io le domande e che nessuno potrà farne direttamente a lei; dovranno raccogliere le idee, comunicare a me le richieste di chiarimenti. Inizia a rispondere a voce molto bassa, poi la incoraggio e si fa sentire. Descrive la paura, la vergogna; descrive la realtà. Ha un modo di vedere la vita e i rapporti sessuali “diverso”: o meglio, è stata costretta ad averlo, da quando il simpatico nuovo compagno di sua madre si è piazzato in casa e ha iniziato a interessarsi a lei. A una bambina di undici anni che all’inizio non si chiedeva nemmeno il perché di quegli ordini secchi, da padrone. E oggi invece sa quello che è accaduto e quello che accade.
Dopo l’udienza la incontro fuori dall’aula, insieme alla madre. Smarrita, rabbiosa, inconsapevole: la madre. Non Maria, una piccola grande donna che la protegge e la riaccompagna in una casa in cui finalmente quel padrone non c’è più.
Angela ha diciotto anni, e ho appena condannato suo padre.
Compiango il giornalista che non avendo seguito il processo, a porte chiuse, si arrabatta a scrivere le solite banalità: il “mostro”, le “inaudite violenze”, il “coraggio di denunciare”.
Niente di tutto questo. Una famiglia povera, di quei poveri che non si vedono, un padre semplice, deprivato, obliquamente innamorato della figlia, che lotta con se stesso, che sfugge alla realtà, che tenta approcci sempre meno equivoci. E un’altra donna adolescente che sa di avere una dignità che non tollera di dover subire regressioni ancestrali: e racconta, senza forzature, forte di quella dignità.
Storie di questi giorni, come molte che la colonna marciante di un’epocale emancipazione porta nelle aule di giustizia. Dove vengono raccolte e trovano il loro capitolo finale, giusto, per quanto si può.
Altre storie: due sentenze degli ultimi mesi (in Cassazione, definitive).
Barbara e Donatella, sei anni, un maestro che le stringe e le tocca con scuse bambinesche che due bambine sanno smascherare. Il difensore vuole che tutto vada a monte perché degli psichiatri non hanno “valutato” la capacità di testimoniare di Barbara e Donatella. I giudici, confermando la condanna, stroncano questo argomento: non c’è motivo di dubitare che abbiano detto la verità, e lo si capisce da che cosa hanno detto, da come lo hanno detto, dalle altre prove che lo confermano, dalla valutazione che di tutto questo i giudici devono dare a partire dal rispetto dovuto a ogni persona. Perché Barbara e Donatella non sono delle povere “creature inferiori” da tormentare con test e “collaudi” psichiatrici.
Antonietta e Lucia, madre e figlia. Qui la tesi difensiva, per evitare la condanna del marito e padre per anni violento e vessatorio, era quella “culturale”: in certi contesti si vive così, i rapporti sono di questo tipo, non possiamo entrare nelle dinamiche familiari in cui la donna è vista in un certo modo, eccetera.
I giudici scrivono che la responsabilità non è né esclusa, né diminuita, e anzi è aggravata, da “atteggiamenti derivanti da subculture in cui sopravvivono autorappresentazioni di superiorità di genere e pretese da padre/marito-padrone”.
Accade molto spesso, molto più spesso di quanto si pensi, che nelle sentenze ci siano scritte cose comprensibili e condivisibili.
Che cosa manca? Già, il ricordo della “sentenza dei jeans”, quella in cui, secondo tutti noi che l’abbiamo letta sui giornali, dei giudici storditi hanno detto che non si può violentare una ragazza se porta i pantaloni stretti.
Sono passati più di dieci anni e nessuno, mai, ha avuto il coraggio di dire “scusate”. Non alla ragazza con i jeans: il suo aggressore è stato condannato, giustamente. Ma ai giudici che l’avevano scritta, e a tutti noi che siamo stati informati falsamente. Era una semplice sentenza tecnica in cui la Cassazione rinviava il processo al giudice precedente per fargli completare l’argomentazione della condanna (che, appunto, è stata ribadita, come era giusto che fosse).
Chi si deve emancipare, in occasione della giornata della donna e ogni giorno? Quei giudici che hanno fatto bene il loro lavoro e sono stati dileggiati per questo? I giornalisti che si sono inventati una storia di successo? Le eroiche parlamentari che allora sfilarono tutte in jeans per protesta senza avere letto la sentenza?O forse ci dobbiamo emancipare tutti noi, donne e uomini, dall’approssimazione e dalla mancanza di rispetto. Un rametto di mimosa non basta, ma con un po’ di abbandono all’emozione e un bel po’ di uso della ragione ci può aiutare.
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