Talvolta conviene guardare il passato per intravedere meglio il presente. Per provarci osserviamo un capolavoro assoluto che tutti conoscono, Funerale a Ornans di Gustave Courbet, un pittore così rivoluzionario da essere paragonabile a Caravaggio o a Rembrandt.
Ultimata nel 1850 ed esposta al Salon l’anno dopo con il titolo Quadro di figure umane, narrazione di un funerale a Ornans, l’opera è di notevoli dimensioni: 315×668 cm, poco più di 21 m2. L’estensione della tela fu colta come dissacrante e volontaria provocazione. I rari formati di quelle dimensioni erano destinati ad ospitare celebrazioni di grandi imprese o di eventi straordinari, non certo i funerali di uno sconosciuto in un paese rurale del Giura, noto solo ai critici come luogo natale e di soggiorno dell’autore. Delacroix lo accusò di volgarità, altri di aver esaltato la bruttezza degli esseri umani recando un vulnus alla bellezza dell’arte.
Ma la provocazione di Courbet è più forte, lucida e determinata. A lui si deve la genesi del termine «realismo». Oggi questa classificazione non dice più nulla, specie in riferimento a un pittore che consuma una definitiva rottura con il naturalismo. Cercando un’altra chiave, vediamo in lui uno dei massimi interpreti del ruolo dell’arte come servizio reso alla verità. È la sgradevole verità di donne sfruttate e vinte dalla fatica, di lavoratori sottomessi a sforzi disumani, di incendi domati a fatica, di corpi disfatti, di preti ubriachi, di amori saffici, di seduzioni feticistiche, di genitali femminili in bella mostra, di animali che cadono sotto i colpi dei cacciatori, di spiagge silenziose. Courbet ha sperimentato i fremiti urbani e il lento declino del mondo rurale, il passaggio del lavoro umano dall’asservimento alla necessità a quello ad altri uomini, la laicizzazione e le resistenze cattoliche, la subordinazione femminile e la potenza del desiderio, la vita indifesa e la forza della natura, e di tutti questi poli ha colto ogni possibile mediazione e gradazione.
Siamo a due anni dalla sconfitta delle insurrezioni liberali e popolari europee del 1848 e agli albori del regime plebiscitario e filoclericale di Napoleone III. La verità che Courbet coglie in un remoto borgo della Franca Contea, è il conflitto tra il persistere di pratiche religiose ridotte a ritualità esteriori e convenzionali e un’avanzante secolarizzazione dei costumi. Lo «Spirito del tempo» aleggia in un livido mattino sulla collina di Ornans. La scandalosità del dipinto sta tutta in questa esplicita evidenza di ciò che si manifesta dentro un apparente involucro di tradizioni, di regole e di ruoli consolidati, dietro il quale si cela impietosa una frattura storica.
L’andamento d’insieme, con i suoi pieni e i suoi vuoti, somiglia a un fregio antico. Tre sezioni tagliano longitudinalmente il dipinto. In alto un cielo livido, una luminosità a cavallo tra il grigio e il giallo, sopra uno sfondo di monti e di crete, su una delle quali si intravede un piccolo villaggio, dettagli panoramici che rendono riconoscibile il paesaggio di Ornans.
Nella fascia centrale vediamo ventisette persone che partecipano a vario titolo al funerale. La costruzione della scena, preparata in ogni particolare nell’atelier del pittore, consente di esaminare gli astanti quasi ad uno ad uno, in uno scorrimento senza discontinuità. Sono ritratti di persone di Ornans, alcune imparentate con Courbet– e tra loro il nonno morto un anno prima –, poi individuate dagli storici grazie a fonti orali e archivistiche. La scena fissa l’istante in cui l’avanguardia del corteo funebre, entrando da sinistra disposta su due file, si è fermata nel luogo di sepoltura, un cimitero intrapreso nel 1848 e non ancora strutturato al momento dell’ideazione del quadro.
Nella fascia inferiore percepiamo la fisicità, i cromatismi e persino la conformazione geologica della terra, come si nota nella parte visibile della buca destinata ad ospitare la bara.
La partizione dello spazio nella fascia centrale mette a nudo un’usanza dei funerali cattolici che ha resistito almeno un altro secolo dopo la realizzazione del quadro: la separazione dei sessi, le donne da una parte, i maschi da un’altra; le donne, indistinguibili se non per l’età, non hanno bisogno di abiti che qualifichino dei ruoli pubblici che non hanno; i maschi, invece, distinguibili sia per i ruoli nella cerimonia che per il loro status. Tutte le donne indossano un copricapo più o meno simile o altrimenti un velo; alcune di loro piangono. Solo un parente stretto della persona defunta si dispera: una mano guantata copre gli occhi con un fazzoletto, l’altra regge un cappello.
Il momento è quello immediatamente precedente la separazione definitiva. Quattro individui, probabilmente membri di una confraternita, hanno appena deposto la bara su un catafalco coperto da un paramento. Il prete sta leggendo da un breviario le parole di rito prima di benedire per l’ultima volta la salma. Lo assistono cinque sagrestani con una tonaca bianca, uno dei quali regge la croce, e due chierichetti, uno dei quali con l’acquasantiera in mano. Inginocchiato sul ciglio della fossa, l’uomo che è stato incaricato di scavarla e poi di richiuderla attende di compiere il proprio ruolo. A destra dello spazio occupato dai religiosi si scorgono due giudici con una toga rossa e un cappello pomposamente rinascimentale, due autorità laiche (il sindaco e un notaio, forse massone), qualche notabile e altri abitanti più umili. Tutti indossano il «vestito buono». Come nota Vovelle, il grande storico della morte, questi personaggi «materializzano l’incontro del potere civile e del potere ecclesiastico», ma altresì marcano la differenza tra i due poli, e il consumarsi della supremazia del primo sul secondo. I funerali sono anzitutto un rito civile che ha sottomesso a sé il rito ecclesiastico. Due personaggi indossano un paio di ghette lunghe e uno di calze, i cui colori risaltano tra i grigi. Questo abbigliamento evoca usanze remote ma di non facile interpretazione. Sul bordo non inquadrato dell’altro lato della fossa sta un cane maschio, sul confine invisibile che separa i due sessi. Una mesta ragazzina chiude la scena.
Vovelle parla di «frammentazione del cerimoniale, raduno derisorio, ostentazione e dissoluzione simultanee dei valori sociali, civili e religiosi». Ecco perché fecero scandalo l’assoluta dispersione degli sguardi e il divergere dei sentimenti. Alcuni sguardi sono persi nel vuoto, distratti, intenti a sbirciare gli altri o in cerca di riferimenti (come il chierichetto e il cane). Salvo le persone dolenti, ognuno sembra pensare ai fatti propri, anche quando l’espressione del viso e la postura del corpo mostrano soggetti assorti nel ruolo o nella compunzione di circostanza. Nel silenzio generale, risuona di più il bisbigliare sommesso di due uomini della preghiera del sacerdote. Il dipinto ci restituisce una cerimonia che celebra un rituale ormai vuoto. Dietro questa cerimonia Courbet non vede impostura (uno sguardo moralistico, in fondo), bensì coglie l’inatteso frantumarsi dell’ordine sociale nelle periferie e non solo negli ambienti urbani dove già da tempo è manifesto.
Fece scandalo anche la descrizione senza infingimenti né reverenze di quei volti brutti, crudi, secchi, popolani (si osservi in proposito la resa impietosa della calvizie del celebrante) e in genere della fisicità dei corpi e dei relativi abbigliamenti. «Una rappresentazione esatta del popolo di Francia – scrive Daverio –, nella mestizia perenne della provincia profonda». Attraverso la sua lente analitica e la sua creatività scenografica Courbet raffigura la silenziosa sopravvivenza di élites residuali in un contado marginale e impoverito. Non era ancora il «proletariato in marcia» descritto da Pellizza quello che Courbet aveva visto due anni prima sulle barricate parigine. Nella sua Ornans, un punto periferico e in apparenza immoto, intravede in un evento ordinario un processo rivoluzionario che si sarebbe rivelato impetuoso.
Courbet concepì tre funerali in uno. Quello fattuale di Ornans è l’autopsia di un villaggio, coglie una frantumazione sociale che ormai disgrega i costumi anche nelle piccole comunità. Sul piano della poetica, è un manifesto che celebra il funerale del Romanticismo. E l’uno e l’altro simboleggiano il congedo di un mondo in bilico tra tradizione e modernità, un attimo prima che i rivolgimenti sociali giungano a sconvolgere quel malfermo equilibrio. Amico di Corot, Baudelaire e Proudhon, Courbet guarda a questo mondo senza nostalgia, benché lo conosca bene e sia stato il suo, ma neppure senza la supponenza di un osservatore esterno catapultato a Ornans non dalla troppo lontana Parigi, ma dalla vicina Besançon. Al dipinto sono estranei tanto l’affettività quanto la freddezza meccanica del chirurgo.
Quello di Courbet è il distacco di chi fa del servizio alla verità un appassionato, dissacrante e libertario impegno civile. Di sé scrisse: «Ho cinquant’anni ed ho sempre vissuto libero; lasciatemi finire libero la mia vita. Quando sarà morto voglio che questo si dica di me: Non ha fatto parte di alcuna scuola, di alcuna chiesa, di alcuna istituzione, di alcuna accademia e men che meno di alcun sistema: l’unica cosa a cui è appartenuto è stata la libertà». Di questo anelito fu testimone il suo attivismo politico, culminato nella partecipazione alla Comune di Parigi, ove ricoprì l’incarico di assessore.
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