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Politica

NOI E LORO

EDOARDO ZIN - 20/04/2018

democrazia“Noi altri ‘ndare da loro? Che i vegna loro da no’ altri!” – mi disse lo spassoso senatore, che aveva appena terminato di stritolare la mela che l’amabile moglie Amalia gli aveva messo nella valigetta di cartone. Eravamo seduti accanto sul “Settebello” che allora collegava Padova con Roma e probabilmente era uno degli ultimi mesi del 1961. I democratici cristiani erano divisi tra coloro che auspicavano l’incontro tra cattolici e socialisti e coloro che erano nettamente contrari. Gli animi erano accesi e le discussioni infervorate.

Il senatore, che mi sapeva favorevole al centro-sinistra, pretendeva che i socialisti di Nenni formassero un governo con i democratici cristiani senza pretendere nulla in cambio. Giovane e rispettoso verso l’insigne senatore, azzardai una domanda: “E se tutti e due i partiti facessero un passo in avanti per incontrarsi sulle cose da fare assieme per il bene del paese rinunciando a ciò che è possibile e volendo il meglio impossibile?”. Aggiungevo, sapendo di fare breccia ad uno degli attaccamenti più cari del padre coscritto: “In fin dei conti, quando lei s’incontrava clandestinamente con gli altri membri del comitato di liberazione, non interessava certamente quale fosse la loro tendenza politica. Vi incontravate, discutevate, parlavate e alla fine decidevate gli impegni da prendere assieme”. Il senatore si arruffò il ciuffo che gli pendeva sulla fronte e concluse benevolmente: “Ti te si ancora un toso su de susta, ma te savessi quanti interesi che ghe soto a quelo che ti te ciami incontro….” (Tu sei ancora giovane, ricco di energie, ma se sapessi quanto potere c’è sotto a quello che tu chiami “incontro”!).

Mi sono sovvenuto di questo episodio seguendo, un po’ distaccato, non lo nascondo, i giri di valzer, i teatrini, le dichiarazioni bivalenti, la confusione tra parole e cose, i gargarismi logorroici di politicanti da quattro soldi e di commentatori che elevavano, durante la formazione del nuovo governo, formidabili barriere alla comprensione dei fatti. Ma è così difficile in una democrazia sedersi attorno ad un tavolo, concordare un programma (“un contratto” no perché la parola mi rimanda ad un rapporto patrimoniale!) su cui si possa concordare, presentarsi al Parlamento, chiedere la sua fiducia, magari ottenerla e incominciare a lavorare coniugando il rigore morale con la qualità della competenza da una parte e con l’attitudine alla mediazione dall’altra? Giudicando da come vanno le cose, sembra di no!

In una democrazia parlamentare e con un sistema elettorale che di fatto è proporzionale, il compito di formare il governo spetta a chi ha ottenuto la maggioranza relativa.

La coalizione di centrodestra alle elezioni aveva presentato tre candidati premier e il partito che aveva ottenuto più voti era risultato la Lega. Anche gli eletti nei collegi uninominali si sono iscritti a differenti gruppi parlamentari dimostrando che una coalizione di centro-destra non esiste. Lo stesso leader della coalizione sconfitto aveva dovuto, dopo le consultazioni al Quirinale, impossessarsi del microfono per esibire ancora una volta il suo narcisismo, perdendo così il senso di appartenenza ad un’ unione e creando imbarazzo ai suoi alleati. L’aspirante premier dei pentastellati – nonostante fosse sicuro di ottenere la maggioranza assoluta – a conti fatti, era alla ricerca dei voti parlamentari e strizzava l’occhio a destra e a sinistra, ma riceveva in risposta soltanto dinieghi accompagnati da volgarità e insulti.

Ciò che più mi ha amareggiato maggiormente in queste consultazioni è, infatti, il disgusto provato per la volgarizzazione e la banalizzazione dei messaggi con la relativa squalificazione della comunicazione. Udivo uomini di parole, ma non di parola; percepivo parole vuote, ma non pensieri, argomentazioni; il loro linguaggio sembrava fatto non per informare il pubblico, ma per frastornarlo; pareva che fossero incapaci di riassumere i fatti precedenti, di verificare le promesse con gli eventi concreti realizzati. Nei diseducativi talk-show, politici e interlocutori si contraddicevano, cambiavano argomento e opinione, fraintendevano, rispondevano alle domande con risposte incoerenti o incomplete. Qualcuno usava un linguaggio magniloquente, ma così vuoto da farmi ricordare il detto di Luigi Einaudi: “Nessuna cosa è tanto odiata dai politici che il parlar chiaro”.

Questi messaggi non permettono all’ascoltatore di farsi dei giudizi fondati sulla sua capacità critica. Al massimo lo confermano nei suoi pre-giudizi. L’attuale crisi della politica è dovuta in parte anche a questo fenomeno di uso della parola come strumento di potere. La politica ha enfatizzato l’ “io” rispetto al “tu” e al “noi”, riducendola a pura prassi con la conseguente concentrazione dell’attenzione sulle promesse elettorali anziché sui modi con cui giungere ai risultati assicurati. Si è inoltre fortemente “personalizzata”: ogni proclamato leader si costruisce la propria nicchia da dove diffonde le sue realizzazioni e argomenta le proprie stereotipie “pensando contro” qualcuno o qualcosa, non “pensando per” gli altri e con gli altri.

In questi giorni di crisi assistiamo all’abbattimento di due pilastri su cui si fonda la politica: il dialogo e la mediazione. È il dialogo il vero pensiero con cui combattere l’arroganza. Partiti e politicanti sono oggi monologanti, autoreferenziali. Nessuno ascolta nessuno e, non accettando l’altro, si oppongono e si scontrano, mentre la gente attende risposte alle sue attese, in un momento in cui anche il quadro internazionale si sta deteriorando.

La mediazione non è sinonimo di compromissione. È naturale che in politica esista una ragionevole conflittualità e che ci sia la presenza di contrasti, anche duri e aspri. Ci sono valori negoziabili, accanto a quelli “non negoziabili”.

I risultati delle recenti elezioni politiche hanno dimostrato tre esigenze: il desiderio di un autentico cambiamento che abbia come fondamento la lotta alla corruzione, agli sprechi per opere inutili, all’evasione fiscale, ai malaffari, ai privilegi. La seconda esigenza è quella di ridistribuire le risorse in modo equo e solidale, combattendo la povertà, creando posti di lavoro soprattutto per i giovani, garantendo un dignitoso riposo agli anziani. La terza esigenza è quella di assicurare al Paese una presenza attiva e proficua in Europa e nel mondo, favorendo la pace fondata su un sistema di regole condivise e di diritti generalmente riconosciuti e tutelati.

Non possono forse queste tre esigenze essere rapportate dalla politica al suo tendenziale esito finale, e cioè ad un successo che sia reale e non soltanto d’immagine? Se non riusciremo a formare, anche con l’aiuto dei potentissimi mezzi di comunicazione, una consapevolezza diffusa, popolare, saremo destinati ad entrare in una stagione della storia che non consentirà, anche ai semi più resistenti di giustizia, di libertà, di pace, di germogliare.

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