Non condividemmo la preoccupazione che seguì l’inopinata elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e, anzi, valutammo in modo negativo l’eventuale vittoria della sua rivale Hillary Clinton perché, a nostro parere, questa avrebbe continuato la politica del suo predecessore Obama, la stessa che una potenza planetaria non può permettersi se vuole restar tale: la politica dei cedimenti camuffati da accordi bilaterali.
D’altronde, se Barack Obama avesse avuto una buona conoscenza delle vicende del Vecchio Continente, si sarebbe accorto che la prima potenza globale della storia, quella dell’antica Roma, era scomparsa proprio perché aveva applicato la sua stessa “strategia”. Ma, soprattutto, eravamo modicamente ottimisti perché persuasi che la politica muscolare di Trump avrebbe fatto emergere (per poi eliminarle…) le contraddizioni sulle quali si stava reggendo il rapporto dell’America con i suoi alleati europei fin dalla caduta del muro di Berlino.
Fatta la tara sul fatto che Barack e Michelle Obama sono stati i protagonisti della più riuscita operazione di marketing presidenziale mai messa in piedi negli Usa dopo John e Jacqueline Kennedy, bisogna dire che nel corso della sua presidenza, Obama, aveva iniziato alcune cose buone, come per esempio la riforma del sistema sanitario, ma per il resto si è limitato a fare il notaio della perdita di leadership del suo Paese.
Durante la sua permanenza alla Casa Bianca, infatti, abilmente ma anche incoscientemente, ha evitato di affrontare i due problemi da cui dipende il futuro del mondo. Come dire la pressante ricerca di un nuovo equilibrio geo-politico capace di sostituire gli antichi centri di governo mondiale di Washington e Mosca e la ridefinizione del ruolo della Nato dopo la scomparsa della sua contrapposta Alleanza del Patto di Varsavia.
Ma ciò che è venuto fuori in modo nitido durante la presidenza Obama è che gli Usa non vogliono più fare i garanti militari dell’Europa dove, in verità, non hanno più tanti interessi politici e militari ma, casomai, divergenti interessi economici.
Facendo un balzellone dal fiume Potomac allo Spree, invece, la Germania è la prima economia europea e la quarta nel mondo, ma il suo tallone di Achille è la debolezza militare. E d’altronde fino alla caduta del muro di Berlino essa non aveva avuto bisogno di un grande apparato difensivo perché – come il Giappone – poteva contare sulla difesa diretta dell’alleato statunitense in quanto avamposto della Nato alle porte dell’impero sovietico. Poi a cambiare gli scenari è venuta la caduta del muro di Berlino prima e la crisi ucraina dopo dove, in pratica, la Russia si è ripresa la Crimea la cui capitale, Simferopoli, in linea d’aria dista appena 1.700 chilometri da Berlino.
Sicché il ridotto impegno militare statunitense in Europa, una Nato priva di un rinnovato obiettivo strategico, le mire neo espansionistiche della Russia di Putin e la necessità di dovere garantire con un minimo di deterrenza militare la sua potenza economica, hanno indotto la Germania a rivedere il proprio dispositivo di difesa che al momento non gode proprio di un’eccellente salute.
Prendiamo a esempio le Unità corazzate tedesche che sono imperniate sull’ottimo carro armato Leopard – 2, ebbene perfino questo carro sarebbe facilmente surclassato dall’ultima versione russa dei carri T-80 e T-90, e addirittura polverizzato dal T-14 “Armata”. Per avere qualche chance contro i carri russi i Leopard – 2 tedeschi dovrebbero impiegare proietti di uranio impoverito, ma un’evenienza del genere sarebbe oggi inaccettabile dal punto di vista politico.
A questo, inoltre, bisogna aggiungere che i 2400 carri armati che erano in linea nella Germania Occidentale fino alla caduta del muro, si sono ormai ridotti a più o meno 300, un dispositivo di rottura o almeno di contrasto dinamico striminzito per una grande potenza industriale che abbia dei vicini pericolosi. Sempreché Trump non chiuda – come minacciò di fare in campagna elettorale – l’ombrello nucleare della Nato, perché in quel caso la Germania sarebbe veramente esposta al Putin di turno.
Purtuttavia, non siamo d’accordo con quegli osservatori che intravedono nel rinnovo di alcuni suoi sistemi d’arma un rinascente militarismo della Germania, o addirittura un affascinamento dei tedeschi per le uniformi e per l’esercito. Parleremmo piuttosto di previdenza perché il militarismo e tipico dei regimi totalitari, la previdenza invece delle democrazie qual è la Germania. E, poi, dopo che Angela Merkel ha imbarcato nel governo i socialdemocratici, dubitiamo perfino che il suo governo continui a stanziare il 2% del PIL per le spese militari… La vediamo un po’ difficile per i supposti neo-militaristi tedeschi.
Qualche altro osservatore (ma con quali occhi guardano questi!) ha, invece, creduto di cogliere un crescente militarismo anche in Italia, dimenticando che militarismo significa asservire la vita politica e i rapporti culturali e sociali ad un potere militare forte… si dà il caso che in Italia avvenga, per fortuna, l’esatto contrario. Che poi la nostra classe politica – i cui orizzonti culturali non sono mai andati oltre la sagra delle salsicce e friarielli dei festival dell’Unità, o del tiro alla fune sul Po – non sarebbe in grado di guidare neppure una sassaiola tra bande di monelli, è un altro discorso.
Il guaio è che in Italia il potere politico che da Mussolini in poi di faccende militari non ha mai capito niente, può contare – per sua e nostra fortuna – su dei gregari militari coraggiosi e motivati, forse i più coraggiosi e motivati del mondo, come ha potuto sperimentare chi scrive avendo avuto il privilegio di comandarne alcuni.
Neppure nel loro caso, però, si può parlare di rinnovato affascinamento per la carriera militare perché la stragrande maggioranza di essi continua a provenire dal Sud del Paese, che è sempre stato il serbatoio dal quale le Forze Armate hanno attinto i loro Quadri, perché lì è difficile trovare altra occupazione.
Quel che oggi appare come un affascinamento per la divisa, dunque, altro non è che la crisi economica ed ideale che attanaglia il Paese, inducendo molti giovani a scegliere la carriera delle armi per amore e/0 per necessità. Ciò non penalizza, anzi le corrobora, il coraggio e le motivazioni, due qualità che, unite ad una intelligenza non comune ed alla capacità di “arrangiarsi”, fanno oggi del nostro soldato un professionista della forza completo.
Figuriamoci se avesse a disposizione anche i mezzi a dovizia, il conforto della visione politica del suo impiego e, cosa molto importante, generali che non fossero dei burocratizzati yesmen banali e immaginifici.
Ecco qualche numero per capire quanto sia immaginifica anche la nascita di un militarismo italiano. Per le spese militari l’Italia investe un po’ meno della Germania, ovvero l’1,4 del Pil, ma quanta differenza tra la Bundsewehr e il nostro dipartimento della difesa che spende malissimo i soldi dei cittadini per mantenere in piedi un elefantiaco “apparato” più che non una struttura di difesa agile e funzionante.
Basti considerare che oltre il 60% del budget è assorbito dagli stipendi del personale e meno del 30% per l’acquisto di armamenti tradizionali. Quello che resta se ne va in operazioni fuori area.
L’altro grande problema è che il personale è composto da comandanti più che comandati, con un numero sproporzionato di Generali: non abbiamo più – eccetto uno – i classici Corpi d’armata ma in compenso abbiamo una sessantina di generali di Corpo d’armata di cui sei con incarichi speciali.
Oddio, bisogna dire che quelli nostri, oltre ad essere più numerosi dei generali delle Forze armate americane, sono molto creativi. Il 20 aprile del 2006, l’allora capo di Stato maggiore dell’Esercito, il generale di Corpo d’armata Filiberto Cecchi, durante un’intervista sostenne che la soluzione per trarre l’Esercito fuori dalle angustie di bilancio poteva essere il ricorso agli sponsor privati.
Ma, a chiarire più dettagliatamente il suo clausewitziano pensiero, fu la risposta che fornì ad un giornalista che aveva chiesto se in avvenire avremmo visto carri armati recanti sulle fiancate la pubblicità della Coca Cola: «Questo no. L’esercito inglese, che certamente non versa in condizioni drammatiche come le nostre […] noleggia, per così dire, uomini e mezzi per fare dei film […] credo che anche l’Italia si dovrebbe adeguare…».
V’è ancora qualcuno disposto a pensare che in Italia stia nascendo il militarismo? Qualcuno che sia, però, sano di mente.
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