Il voto dello scorso 4 marzo, ispirato indubbiamente a un’ansia di rinnovamento da tempo in incubazione, ha significato al contempo, con la decisa affermazione del Movimento dei 5 Stelle e della Lega di Salvini nell’ambito del centro-destra, il trionfo del populismo e della facile demagogia.
A onor del vero si sono però misconosciuti gli indubbi aspetti positivi del bilancio di legislatura: questo anche a causa di indubbi difetti di comunicazione da parte del Partito democratico, della sua diminuita presa sul territorio per l’arroccamento della casta interna, di fronte alla grave crisi sociale perdurante, alle dolenti note sul fronte dell’occupazione, alla crescita del divario tra ricchi e poveri, all’inarrestabile appesantimento burocratico, per non dire della gestione inadeguata del fenomeno migratorio. È però da rilevare che il governo uscente per tanti versi non lascia un’eredità negativa.
La fase recessiva preoccupante iniziata nel 2008 ha visto nel corso del 2017 migliorare il clima di fiducia dei consumatori come delle imprese, la ricrescita del Pil reale, sia pur non travolgente, dal 2014, l’aumento del numero degli occupati, tornato ai livelli precedenti la crisi del 2007, un’evoluzione positiva dal punto di vista dell’equilibrio dei conti pubblici (l’indebitamento netto dovrebbe scendere dal 2,1 % del 2017 all’ 1,6 % del 2018 sino allo 0,9 del 2020).
La discesa del rapporto tra debito pubblico e Pil dovrebbe ridursi marcatamente nel 2020 al 123,9 % (comunque sempre alto). La pressione fiscale è scesa dal 43,7 % al 42,6 del PIL nel corso della legislatura.
Tra le operazioni più significative di riduzione del gettito l’aumento delle detrazioni Irpef sui redditi da lavoro dipendente, gli interventi sull’Irap, la riduzione dal 2018 dell’aliquota Ires dal 27,5% al 24 % a partire dal 2018 (si tratta dell’imposta che colpisce i redditi delle società). Ma l’aliquota ordinaria dell’Iva è salita dal 21% al 22.
Per quanto concerne le spese dal 2014 quella per interessi ha ripreso a scendere (3,9 % del PIL nel 2017). Si è assistito altresì alla riduzione graduale della spesa corrente primaria. Da lamentare comunque la diminuzione della spesa per investimenti pubblici, come di quella per i dipendenti (questo di fronte al rinnovo contrattuale del personale statale dopo blocchi ripetuti). A partire dall’1 dicembre 2017 è stato introdotto il reddito di inclusione (Rei), misura universale di sostegno al reddito e contrasto alla povertà.
La manovra di finanza pubblica per il 2018 (Dl n.148 / 2017 – Legge 27 dicembre 2017 n. 205) si traduce in un orientamento espansivo con un maggiore indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche.
La campagna elettorale si è appuntata su proposte di aumento della spesa pubblica e di diminuzione delle imposte nella logica di un mix esplosivo dal punto di vista della compatibilità di bilancio, a partire dalla flat tax, che comporta un abbassamento dell’onere tributario sui redditi più elevati con un aumento della disuguaglianza difficilmente conciliabile col c.2 dell’art. 53 della Costituzione, che prevede criteri di progressività. Si aggiungano il reddito di cittadinanza proposto dai 5 Stelle, l’abolizione o almeno la riforma significativa della riforma Fornero delle pensioni, l’abolizione delle tasse universitarie, l’aumento delle pensioni minime a mille euro.
Nessuna preoccupazione che ogni aumento di spesa o taglio di imposte preveda un’indicazione precisa del possibile recupero di risorse necessarie alla copertura, tutto a scapito dell’improrogabile contenimento del disavanzo e dei vincoli vigenti nel contesto europeo. Le perdite di gettito sono comunque in merito rilevanti e pericolose. La lotta all’evasione fiscale (ora incrementata) è ben lontana dal dare risultati in breve eclatanti. La vaghezza delle proposte si dissocia da una stima sensata e realistica dei costi.
Nella scorsa legislatura è tuttavia mancato un progetto forte e condiviso di politica tributaria; è un processo di riforma dai tempi biblici. Poco si è fatto sul fronte della revisione delle agevolazioni fiscali (valgono 150 miliardi di euro). Le spese per investimenti sono risultate compresse.
Al prossimo governo, scaduti i tempi della mera propaganda, si presentano problemi di assoluto rilievo: migliorare, anziché peggiorare, il rapporto tra debito e Pil; va ridefinita la fiscalità locale: dopo il referendum del 4 dicembre 2016 va riaffrontato un serio progetto di riforma costituzionale. Ora si confida, spentasi l’eco della competizione elettorale, che in un clima di responsabilità si possano soddisfare esigenze di correttivi delle varie disuguaglianze e rispettare al contempo gli obblighi ineludibili imposti da un bilancio che non risulti fallimentare. Ce lo impongono misure di carattere europeo, ma innanzitutto la dignità del Paese.
Non ci si può chiudere in un nazionalismo fuori tempo in epoca di globalizzazione e nell’egoismo dei vari ceti a scapito del bene comune.
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