Una riflessione sui valori che stanno alla base della convivenza civile, passando per la scuola, asse nevralgico della società. La suggestione mi è arrivata da una recente, piccola esperienza personale.
L’evento è casuale ma davvero illuminante.
Affollata sala d’attesa di un parrucchiere unisex, giorni di vigilia della Pasqua. Fintamente china sul mio giornale, osservo le persone che mi siedono accanto e di fronte.
Un ragazzino in età di scuola media, tredici, al massimo quattordici anni, discute animatamente con la madre seduta di fronte.
Come molti suoi coetanei, è insistente e indisponente nei confronti della genitrice. Lui insiste, lei rifiuta.
Drizzo le orecchie. Chissà se l’oggetto del contendere è il nuovo modello di smartphone o il permesso per l’uscita serale con gli amici.
Mi rendo conto che, qualunque sia l’argomento, il ragazzo l’ha già spuntata sulla povera madre, sfiancata dalla discussione, che ce la sta mettendo tutta per farlo ragionare. Stanno parlando del taglio da chiedere al parrucchiere, ultimissima moda, trend attualissimo, pare di capire. Sì e no, tira e molla.
Sbotta il ragazzino, esasperato. Si alza, si fa sotto alla mamma gridando “Ma lo vuoi capire o no che nella mia scuola o sei ricco o sei bello? La vuoi capire?”
Si siede, ha le lacrime agli occhi per la tensione.
Il taglio che pretende è una questione di vita o di morte: in gioco c’è l’accettazione nel gruppo o l’espulsione dalla cerchia dei ragazzi che contano.
Sono tentata di chiedergli di quale scuola stia parlando, una scuola così crudele e tanto selettiva da non consentire nessun altra opzione. Ma mi trattengo, ma non oso, poi correrei il rischio della risposta che si dà ai ficcanaso.
Faccio scorrere nella mente i nomi delle scuole in città dove potrebbe verificarsi una siffatta divisione, terribile, e non solo agli occhi dello studente tredicenne.
Dunque, rifletto, succede che mentre fior di insegnanti si prodigano per educare a valori come la pace, la cooperazione, la solidarietà, l’accettazione dell’altro, la multi e l’interculturalità, la conoscenza e il rispetto delle regole socialmente condivise; mentre i collegi docenti si affannano a individuare sempre nuovi percorsi per favorire una buona crescita emotiva, affettiva, culturale degli adolescenti; mentre numerose scuole si aprono al sociale offrendo incontri con testimoni del nostro tempo, magistrati, sacerdoti coraggiosi, forze dell’ordine, medici e psicologi; ecco che cosa conta davvero in una scuola, una qualunque di Varese (ma anche della provincia) per un giovane studente: essere ricchi – dato riconoscibile dai vestiti giusti e dalle scarpe che costano un quarto dello stipendio medio di un lavoratore, e dalla lunghezza e dalla potenza dell’auto di mamma e papà che attendono fuori dai cancelli della scuola.
Deduco che se non sei ricco davvero, poco conta aver raggiunto “quel“ paio di scarpe; resti “povero”, cioè “out”, cioè irrimediabilmente non ricco.
Così ti resta la bellezza, valore effimero per l’adulto saggio, ma centrale e irrinunciabile a tredici anni.
Eccola, l’ ultima spiaggia di chi non appartiene alla categoria dei privilegiati: essere bello, “figo”,per questo amato e cercato dai compagni.
Torniamo nel negozio del parrucchiere. E’ arrivato il turno dell’aspirante bello. Ultimo inutile tentativo della madre di impedire un certo taglio. Si procede, una passata di phon e di gel e, il neo “bello” ora è pronto.
Può godersi la Pasqua e poi prepararsi al ritorno sui banchi finalmente a posto, avendo adempiuto al dovere numero uno di ogni adolescente: essere accettato dai suoi simili.
Gioisco per la sua momentanea felicità. Il ragazzo ne ha comunque diritto.
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