Nel 1964 vide la luce, per i tipi dell’editore Laterza, un volume dal titolo I giovani degli anni Sessanta. Gli autori, Ugoberto Alfassio-Grimaldi e Italo Bertoni, avevano condotto un’inchiesta tra gli studenti delle scuole medie superiori di Pavia e di Voghera al fine di tracciare un ritratto di quella nuova generazione nata dopo la guerra. I due autori erano convinti che quei giovani, a differenza dei loro padri, non inalberavano «il pavese dei grandi ideali», anzi, ritenevano che quei giovani fossero così bene inseriti nella loro società da essere «privi di fermenti di rivolta». Insomma, tirando le somme, quegli studenti venivano classificati come «i giovani delle 3 M»: i loro desideri sembravano essere orientati verso il possesso di una “macchina”, la conquista di una “moglie” e l’acquisto di un “mestiere”.
Probabilmente la realtà era un po’ diversa…
Sin dall’inizio di quel turbolento decennio, la gioventù aveva dato prova di sapersi mobilitare. «Come mai la gioventù è oggi pronta a scendere in piazza?», si chiedeva «L’Espresso» nel luglio del 1960. «Chi sono – gli faceva eco lo scrittore Carlo Levi dalle pagine del settimanale «Abc» – coloro che hanno in questi giorni cambiato, inattesi, le vicende, messo in moto una realtà italiana che sembrava stagnante, corrotta, senza uscite né speranze?»
Non sapendo bene come definire questi giovani che avevano riempito le piazze nell’estate del 1960, qualcuno li aveva definiti «ragazzi con la maglietta a strisce», identificandoli con l’indumento di moda in quel momento. Erano spuntati un po’ dappertutto: a Genova, a Roma, a Reggio Emilia, a Catania… Avevano fatto la loro comparsa alle manifestazioni promosse in primavera da sindacati e partiti di sinistra per protestare contro il governo Tambroni, che godeva dell’appoggio esterno del partito neofascista Movimento sociale italiano. Poi, all’inizio dell’estate, si erano scontrati contro le forze dell’ordine nella capitale ligure, per impedire che nella città medaglia d’oro della Resistenza avesse luogo il congresso proprio del Movimento sociale italiano, che aveva annunciato per l’occasione la presenza di Carlo Emanuele Basile, prefetto della città durante la stagione della Repubblica sociale italiana. Erano scesi in piazza anche a Palermo, negli stessi giorni, come a Licata e a Roma, a Porta San Paolo. A Reggio Emilia, il 7 luglio, la polizia aveva aperto il fuoco contro i dimostranti (come già era accaduto in Sicilia), provocando la morte di 5 persone ed il ferimento di 19. I morti e i feriti, a Reggio Emilia, a Licata, a Palermo, erano in prevalenza giovani, poco più che ragazzi.
«Protagonisti della protesta unitaria che accomuna italiani dell’Italia settentrionale, dell’Italia centrale e dell’Italia meridionale, – scrisse Andrea Barbato sull’«Espresso» il 17 luglio di quell’anno – è la gioventù. A Roma, a Reggio Emilia, a Palermo e a Catania vittime della violenza di Stato sono ragazzi con la maglietta a strisce».
Ed ancora due anni dopo, nel luglio del 1962, quando a Torino esplose la protesta operaia per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, in piazza Statuto, nei tre giorni di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, fu rilevata, come una novità, la presenza numerosa, massiccia e attiva di «giovinastri». «Nel gran quadro della vita cittadina – si legge sulla «Stampa» del 10 luglio – si inseriscono circa duemila dimostranti, quasi tutti giovani sui 15-16 anni».
Evidentemente quella nuova gioventù non era proprio così inerte e apatica come era sembrata a qualcuno. Certo, sfuggiva ad ogni facile classificazione. Entrata sulla scena tra il 1960 ed il 1962, fu battezzata sbrigativamente dai rotocalchi e dai giornalisti di costume come la «generazione yè-yè». L’espressione era stata ricavata da una canzone di Adriano Celentano del 1961, 24 mila baci, dove, ad un certo punto, venivano ripetute nel verso sillabe prive di senso: «Ma solo baci chiedo a te: yè yè yè yè yè yè yè yè».
La soluzione fonico-ritmica introdotta dal supermolleggiato incontrò subito il favore dei suoi colleghi. Gianni Morandi introdusse lo «yè yè» nella sua Andavo a cento all’ora, del 1962; Little Tony, nel 1964, lo ripropose nella canzone Quando vedrai la mia ragazza; Rita Pavone ricorse allo «yè yè» nel Ballo del mattone, del 1963. Quest’ultima canzone, peraltro, proponeva un diverso modo di concepire il rapporto di coppia. In sostanza, la cantante invitava qui il suo compagno a non essere «geloso» o «furioso» se a lei fosse capitato di ballare «con altri» il rock o il twist, perché «con te / che sei la mia passione / io ballo / il ballo del mattone». Ballare «il ballo del mattone» suggeriva l’idea di un ballo languido, durante il quale la coppia era talmente unita e allacciata, da muoversi nel limitato spazio di una mattonella. Il 1963, si ricorderà, fu l’anno in cui le donne italiane conquistarono il diritto a poter accedere ai concorsi in magistratura, dopo quindici anni dall’entrata in vigore della Costituzione.
La Costituzione avrebbe dovuto essere il punto di arrivo dell’insegnamento della Storia già nel 1965 (almeno così recitava una circolare del Ministero della pubblica istruzione dell’epoca). Ma proprio in quell’anno, in cui ricorreva il ventennale della Resistenza, qualche inchiesta denunciava che gli studenti arrivavano a sfiorare a malapena ciò che era accaduto nel corso della Grande guerra. Non c’era quindi da stupirsi se i cosiddetti «giovani yè yè» iniziavano a mettere in discussione le strutture tradizionali di una società che, a fronte delle precipitose trasformazioni economiche, non riusciva a rinnovarsi.
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