Quando abitavamo in Calabria, nella casa paterna – erano i primi anni cinquanta -, parenti e amici ci inviavano spesso regali. Arrivavano le domestiche, recando sul capo grandi ceste colme di prelibatezze: soppressate e capicolli, ricotte fresche e provoloni, ortaggi e frutta, a volte anche galline o piccioni. Vivi.
Per un giorno o due i volatili venivano depositati sulla terrazza della cucina, ma poi il loro destino doveva compiersi. Mia madre era addetta alla nefasta operazione, anche perché tutti gli altri si rifiutavano. E se io o i miei cuginetti, guardando la gallina starnazzante, protestavamo (“Poverina! Come puoi ucciderla?”), la mamma, pragmaticamente, rispondeva con due domande retoriche: “Volete mangiarla?” oppure “Volete farlo voi?”. Trattandosi di domande retoriche, la risposta era inutile: in silenzio uscivamo dalla cucina, chiudevamo la porta e la riaprivamo solo quando l’assenza di suoni suggeriva che il sacrificio era compiuto.
Un giorno, però, una domestica arrivò con un capretto e lì le cose si complicarono. Inutile dire che tra me e lui fu amore a prima vista: ci adottammo subito a vicenda. Lui (non credo di aver fatto in tempo a dargli un nome) era bellissimo, con due piccole corna che cominciavano appena a spuntare e un mantello riccio e nero, qua e là spruzzato di bianco. Lo volevo sempre con me e lui mi seguiva ovunque, come le anatre di Lorenz. Solo che non era molto sveglio e quando scomparivo alla sua vista, entrando in un’altra stanza, si bloccava, cominciava a belare e faceva la pipì sul posto. Con grande gioia di mia madre, che era maniaca della pulizia.
I miei cominciarono a complottare per trovare il modo di sottrarmelo senza provocarmi un trauma. E l’occasione venne il giorno in cui decisi che doveva uscire a spasso con me, come fosse un cagnolino. Non avendo a disposizione un guinzaglio, gli legai una corda attorno al collo e tutto andò liscio finché non ci trovammo a dover imboccare una strada sterrata in ripida discesa. Lì si impuntò e non c’era verso di smuoverlo: più tiravo e più si rifiutava di proseguire. Allora la mamma, con molta dolcezza, mi spiegò che non era nella natura di un capretto fare tutto ciò che fanno gli esseri umani o comportarsi come un animale domestico e che sarebbe stato molto più felice in un gregge con i suoi simili. Era quindi necessario affidarlo a Peppino.
Peppino, che abitava proprio di fronte a casa nostra, svolgeva diverse attività: era pastore, macellaio, oste. Tutte le mattine uno dei suoi figli conduceva il gregge al pascolo e tutte le sere lo riportava all’ovile. I belati e i campanacci che risuonavano nel vicolo all’imbrunire erano il segnale che si poteva andare a comperare il latte appena munto. Tuttavia la sua macelleria era sempre ben fornita di carne di pecora, segno evidente che le povere bestie non erano allevate solo per la produzione di latte. Particolare che, nonostante la mia tenera età, non mi era sfuggito. Oltretutto mi era capitato di assistere, dal balcone del salotto, al tremendo rito dell’uccisione del maiale e quindi per me Peppino era soprattutto “il macellaio”. Provai così a contestare la proposta pseudo – animalista della mamma, ma lei riuscì a convincermi e il povero capretto finì da Peppino con il mio altruistico consenso.
Solo molti anni dopo, ricordando quell’episodio, fui colta dal dubbio e rivolsi a mia madre l’ovvia domanda: “Ma voi me l’avete fatto mangiare?” “Certo – fu la risposta – ce l’avevano regalato per quello!” Li accusai di crudeltà mentale, ma non me la presi più di tanto: ormai avevo l’età per capire che quelli erano stati anni difficili e che, in un paese sperduto della pre–Sila, la carne, quando c’era, era sempre di pecora, solo raramente di maiale. Un capretto era una leccornia. Tuttavia ancora adesso, benché mangi di tutto, non sono attratta da capretto e agnello. Forse l’inconscio…
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