Willy Brandt è stato uno dei giganti della storia del ‘900. È una figura a tutt’oggi esemplare, e molto ha ancora da insegnarci.
Cresciuto in ristrettezze economiche, seppe trasformare un processo di emancipazione personale in un percorso di emancipazione politica collettiva, e viceversa.
Sin dal 1933 si oppose al nazismo. Esule in Norvegia, fu uno dei pochi tedeschi a combattere, prima come partigiano e poi come regolare, contro l’esercito nazista. Aveva capito che «freedom first», e molto altro ancora va anteposto alla nazione, perché di nazionalismo si muore. In un’epoca gonfia di retorica in cui si considerava il patriottismo un onore, Brandt ne colse l’orribile e disonorevole rovescio.
Fu uno dei leader della SPD che a Bad Godesberg traghettò la socialdemocrazia tedesca oltre la sudditanza allo scolasticismo marxista, ancorché declinato in chiave riformista. Una società aperta, problematica, poteva essere interpretata solo da un pensiero aperto, problematico, senza con questo tradire il lavoro e le classi più deboli.
Fu uno straordinario sindaco di Berlino Ovest, la città libera per eccellenza, e tanto più libera perché era circondata da un muro impenetrabile erettole attorno da un mondo ostile. Una città che considerava un proprio dovere innovare, sperimentare, delineare grandi progetti urbani, senza mai cedere a pratiche di basso profilo. Una città di giovani e per giovani, multietnica e multireligiosa. Da allora la città più vivibile e gioiosa del mondo, oltre che una delle più belle e più ardite.
In qualità di cancelliere fu l’artefice della Östpolitik, una strategia di confronto con la Repubblica Democratica Tedesca che aveva come scopo dichiarato la pacificazione tra Est e Ovest e l’uscita dalla guerra fredda, ma nella consapevolezza che l’occidente liberale, democratico e socialista avrebbe destabilizzato, con quella politica, la DDR e gli altri alleati dell’Unione Sovietica: un blocco statico, immobile, conservatore, dove le persone erano prive di libertà e di diritti, sarebbe stato messo a dura prova non da una politica di contrasto muro contro muro, ma da un confronto pacifico con una società aperta, dinamica, innovativa e inclusiva. Era il blocco sovietico ad avere bisogno della guerra fredda per sopravvivere e reiterare il proprio conservatorismo; l’Europa e gli Stati Uniti sarebbero stati ugualmente danneggiati se fossero rimasti ancorati ai giochi di ruolo instauratisi a livello globale tra il 1945 e il 1949. Chi si apre è più forte, non più debole. Questa strategia, molto contrastata dagli Stati Uniti, gli valse nel 1970 il Nobel per la pace.
Brand è soprattutto un’immagine, quella in cui è ritratto in ginocchio, visibilmente commosso, in solitudine, sui gradini di un monumento eretto a Varsavia in omaggio alle vittime del ghetto e a una città che la Germania nazista aveva raso al suolo mentre Stalin, dall’altra riva del fiume, stava a guardare immobile come il gatto in attesa del topo. Fu l’uomo che ebbe la forza, l’orgoglio e il titolo per riconoscere le colpe della Germania e per chiedere perdono – lui, l’incolpevole – a tutti i popoli che il nazismo aveva oppresso.
Scommise sull’Europa più dei suoi predecessori di indirizzo conservatore. Più che un asse franco-tedesco la sua politica europea incluse paritariamente anche Gran Bretagna e Italia. Durante il suo cancellierato l’Europa ebbe una politica estera: oggi una cosa simile sarebbe impensabile.
Preferì capire, anziché contrastare, la radicalità delle domande di pace, di giustizia, di nuove libertà nei comportamenti che sostenevano le proteste del ’68.
Scelse di dimettersi quando venne scoperto che un suo consigliere era un confidente della Stasi, l’onnipresente polizia della DDR. Non era al corrente di nulla, ma si inchinò al dovere della responsabilità.
Di fronte ai grandi della storia tendiamo a idealizzare. Nel comune immaginario non hanno una vita privata, non nutrono affetti, consacrano se stessi ai loro fini elevati e non si piegano alla quotidianità.
Questa immagine non si discosta del tutto dal vero. Ci sono impegni che assorbono a tempo pieno e che sottraggono alla sfera privata più di quanto diano all’individuo nella sfera pubblica. Brandt non fa eccezione. L’oblazione di sé per grandi cause sacrifica spesso gli affetti più intimi, costretti a venire messi in secondo piano rispetto a incombenze più urgenti. Il politico è confidente con tutti, stringe molte mani, vede molti volti, quasi mai pranza solo: è costretto a circondarsi di persone estranee, che conosce superficialmente: con loro si apparta a parlare di «cose» appena sbrigate le formalità e i convenevoli. Spesso questo sacrificio crea dolore e fatica negli altri. Le mogli – più di rado i mariti – e i figli finiscono in secondo piano. E quando la persona grande decide di scendere nella quotidianità domestica, e desidera manifestare la propria presenza, ecco che qualcosa può andare storto.
Il figlio di Willy Brandt, Matthias, in un’autobiografia appena tradotta in italiano racconta di quanto da bambino amasse, nel forzato isolamento protetto nella villa in cui viveva, scorrazzare in bicicletta fantasticando attorno alla casa e per il parco. Il padre sapeva di questa sua passione, e probabilmente immaginava quanto quel giocare da solo fosse insieme un’impagabile eccitazione mentale e motoria e un rischio di chiusura e di fuga rispetto a un sentimento che poteva crescere solo nei ritagli, negli interstizi lasciati liberi.
Così, un pomeriggio in cui Willy trovò del tempo da dedicare a Matthias, decise di uscire con lui a pedalare. I due, circondati da una fitta scorta, si avviarono per un viottolo. Un centinaio di pedalate e il cancelliere cominciò a perdere il controllo del mezzo, finché non cadde.
Willy Brandt aveva fatto di tutto nella vita tranne che imparare ad andare in bicicletta. Gli uomini della scorta rimasero allibiti. Matthias invece fu grato al padre. L’imbranataggine non è poi così terribile se testimonia un affetto.
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