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Attualità

MORIRE DUE VOLTE

EDOARDO ZIN - 30/03/2018

vitaSeduto su un antico capitello romano nella zona collinare della città che mi ospita, finalmente mi posso godere una giornata di sole, contemplare la natura che sembra risvegliarsi e valutare le possibilità, gli inviti, le occasioni, le sollecitazioni offertemi da questo sguardo.

Fino a pochi giorni fa, l’aria rabbrividiva i corpi, a terra c’era un fogliame secco, il cielo era basso e grigio. Una stagione, si sa, non ha scadenze brusche. Eppure non possiamo eliminare le stagioni con la pioggia, il vento, la neve, il freddo perché servono al seme che sembra morto e contiene, invece, la vita. Oggi l’erba è nuova, punteggiata qua e là da primule, verdeggia; sui rami nudi spunta il mantello delle foglie, con tutte le sfumature del verde; un venticello tiepido gioca tra i rami e l’aria mi porta l’odore della vita nuova.

Più sotto, il fiume scorre lento, limpido più che mai. Anche due ragazzi, che si sono allontanati dalla classe in visita scolastica, si sorridono, sdraiati sull’erba nuova e la loro tenerezza li porta a guardarsi negli occhi, a tenersi per mano per sostenersi in un amore che può essere passeggero, ma può anche unire gli impossibili. Oltre l’argine, si apre la città collegata da un bel ponte di pietra. Noto i suoi campanili, i tetti coi coppi rossi, i palazzi rivestiti di marmo rosso con le loro trifore, le sue stradine medioevali, le piazzette un tempo luogo di pettegole chiacchierate ed ora sede di sguaiati incontri attorno ad un buon bicchiere di vino nostrano.

Domenica celebreremo la Pasqua. Mi hanno insegnato che vuol dire “passaggio”: nella pesah ebraica ricorda il passaggio del Mar Rosso del popolo ebreo, per i cristiani il passaggio di Cristo dalla morte alla vita. Ormai anziano, penso spesso anch’io alla morte e sono giunto alla conclusione che si debba morire due volte: quando il muscolo cardiaco cessa di battere, ma anche quando non ho lottato del tutto per fare nella vita qualcosa di buono, di bello, di vero. Non si può vivere senza trovare la pena per cui farlo, senza darle un senso, senza avere una passione che ci sorregga nei momenti di smarrimento, senza provvedere al proprio destino e non sentire il bisogno dell’Infinito.

La Pasqua viene a disporsi in un’armonia stagionale e simbolica: dal grembo della terra invernale – sepolcro della vita – esplodono erbe, fiori, germinano piante. È il passaggio dalla morte alla vita. Sento anch’io l’esigenza di “far Pasqua”, sento struggente il bisogno di vincere la morte che è in me rappresentata dagli scatti d’ira, dalla trasgressione, dalla ricerca parossistica della perfezione, dal desiderio di essere amato più che di amare e passare alla vita nuova: possedere e diffondere l’esultanza pasquale del mio amico greco che, quando mi saluta, mi dice:” Mia gioia! Cristo è risorto!”.

In un’epoca i cui si è titolati a vivere in un individualismo sfrenato, per l’uomo d’oggi “far Pasqua” significa passaggio dall’inimicizia all’amore, dall’affermazione di se stessi all’altruismo, dalla logica del consumo a quella del dono, dalla bramosia del potere al servizio gratuito, dalla paura per il diverso alla convivialità.

Seduto su questo capitello antico, il mio sguardo si posa sulla città. Vorrei impossessarmi dello spazio dove vivono uomini e donne, percorso da migliaia di turisti, dove il tempo è misurato sull’ “attimo fuggente”, dove la velocità divora chi vi abita. Lì vivono famiglie, operano commercianti, le scuole accolgono ragazzi e giovani, i bar, i ristoranti, le antiche osterie sono luoghi d’incontro all’insegna del divertimento, lo stadio accoglie tifoserie, i musei milioni di turisti, gli ospedali ricevono malati da tutto il Paese. Tutte queste realtà “faranno Pasqua”? Passeranno, cioè, dalla banalità del vivere alla ricerca dei difficili tentativi umani di lotta contro il male, le oppressioni, le ingiustizie?

Mi piace pensare che al cristiano, a colui che è rinato nel battesimo, spetti il compito di “far fare Pasqua” alle realtà terrestri, di farle uscire dalle tombe del non-senso. È lui che deve colmare la disarmonia tra il disordine e l’ordine, far passare queste realtà da strumenti di distruzione dell’uomo a mezzi per far rifiorire l’umano che c’è in ognuna di esse. La famiglia non può germinare creature solamente biologicamente, ma anche spiritualmente per non rischiarare di lasciare i figli orfani di senso. La banalità della sessualità può passare ad essere il linguaggio di un vero amore. L’economia non può ridursi solo a interesse, a pensiero calcolante, votato all’utile e al pragmatismo, ma deve aiutare l’uomo che, con il suo lavoro potrà vivere così nella fierezza di chi sa di contribuire alla crescita di una comunità. La scuola non può limitarsi a dispensare conoscenze, ma deve sforzarsi a nutrire l’animo dei nostri giovani con passioni profonde, con energie capaci di far superare loro gli ostacoli della vita. Il tempo libero non può frantumarsi in brevi occasioni per allontanarsi dai crucci quotidiani e cadere nella nausea della droga o della noia, ma colmare il desiderio di gioia, di spensieratezza, di crescita interiore. I luoghi di cura non possono essere gestiti come aziende, ma ritornare ad essere momenti dove si distribuisce il balsamo della carità per curare ferite non solo fisiche. E chi, se non il cristiano, può “far fare Pasqua” alla politica che si configura stanca, piatta, autoreferenziale? Non è egli che deve impegnarsi per combattere i discorsi contorti, le parole insignificanti, la brama di potere, il desiderio di sopraffazione, gli intrighi di palazzi per sostituirli con il servizio per il bene comune?

 Nella città che vedo sotto di me abita sempre più la diversità, la differenza, che ha bisogno di essere accolta nella compagnia degli uomini con rispetto unito all’adempimento di doveri. La città è il luogo comune di tutti, lo spazio di valori condivisi, luogo in cui tutti assieme, credenti e non credenti, realizzano un nuovo umanesimo.

Seduto sull’antico capitello romano, penso che con Cristo, anche l’uomo vecchio, le realtà terrestri, il cosmo intero sono stati sepolti nella stessa tomba. Il che significa che tutto è morto per nascere alla vita nuova, come la morte di Cristo è sfociata nella Resurrezione, nella sua discesa agli inferi dove ha riscattato l’uomo, così egli è divenuto suo collaboratore per far passare le realtà terrestri colpite dalla morte del male per riportarle alla vita nuova della Pasqua, non eludendole, ma penetrando in esse con un messaggio di speranza. Questo, per me, è “fare Pasqua”.

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