L’ascesi (…) porta anche a liberarci da tutto quello che è proprio della “mondanità” per vivere la logica del Vangelo che è logica di dono di sé, come esigenza di risposta al primo ed unico amore della nostra vita (Papa Francesco, Vultum Dei quaerere).
La Quaresima ambrosiana con la lettura continuata nelle ferie del discorso della montagna ci presenta con forza il protagonista dell’ascesi cristiana ed il suo significato. Gesù vede le folle, sale sul monte, si pone a sedere e parla (cfr. Mt 5, 1 -2). Ed il suo insegnamento è con autorità: non fa una casistica di norme, non narra i fatti antichi per trarne precetti per l’oggi, dice invece quanto Dio vede nella folla che lo cerca, nei discepoli che si avvicinano a Lui. Il suo insegnamento è autorevole, non è al condizionale perché nulla può condizionare il suo annuncio; è all’indicativo perché semplicemente indica l’opera di Dio negli uomini: la beatitudine, meraviglia di grazia compiuta da Dio nella fortezza inaccessibile della storia umana – con le sue sofferenze ed ingiustizie – e nella fortezza inaccessibile delle vicende di ciascuno – con ogni povertà ed ogni generosità; e poi il sale, la luce, la lampada accesa: opere compiute da Dio negli uomini.
Così Gesù indica la logica del Vangelo che è logica di dono, particolarmente di dono di sé. È Dio che dona agli uomini. È Gesù stesso a donarsi; quel suo sedersi, lasciarsi circondare, ed il suo insegnare a partire da uno sguardo – “vedendo la folla” – ci dice che quell’insegnamento non è comunicazione di dottrina, ma è il frutto di un incontro che lo ha coinvolto in profondità ed in cui si rivela. In quello sguardo che lo spinge sulla cattedra del monte risuona la sua stupita esclamazione: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. (…) Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11, 25. 27).
Se l’ascesi è anche per vivere la logica del Vangelo come dono di sé, allora nasce qui, da questo rivelare il Vangelo che non è faccenda puramente intellettuale, è sguardo che vede, è tempo speso, è offerta di sé in un incontro di mente di cuore, di opere. È Gesù che per primo sale sul monte – fa ascesi – si siede, si rivela. È Gesù che accende la lampada perché faccia luce a quelli di casa e Lui è la luce, noi la lampada che riceve il suo rivelarsi a noi nella totale gratuità. Si dona a noi, ci dona il suo essere luce, il suo essere per noi ed in noi così che ormai non si distingue più tra il mezzo ed il compimento: “voi siete la luce”! e ancora: “voi siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). La “nostra” ascesi è far spazio in noi a queste parole autorevoli che compiono quello che dicono.
C’è dunque la lampada che guardata da Gesù è divenuta luce e c’è il “moggio” sotto la quale la lampada può essere nascosta per non essere più “luce”. Da Adamo in avanti l’uomo cerca di nascondersi: “Dove sei?” “Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto” (Gen 3, 9 – 10). Come Adamo anche noi ci nascondiamo perché non siano viste le nostre nudità e le nostre debolezze? O, forse, ci nascondiamo dietro la nostra nudità e le nostre debolezze? Dio già conosceva la nudità di Adamo (lo aveva creato Lui, no?), vedeva quella nudità, ma proprio quello sguardo rivestiva Adamo di luce finché Adamo non si nascose. Disse di essersi nascosto perché nudo, ma quella nudità era per l’essersi rivestito dello sguardo del serpente, della sfiducia verso Dio, dell’orgogliosa autonomia da Lui. Si era visto con gli occhi del serpente come lontano ed autonomo da Dio, e si era scoperto nudo, una nudità che sembrava domandare il nascondimento, ma in realtà ne era la conseguenza.
Così per noi il moggio sotto cui porre la lampada con la luce che lo sguardo di Dio vi accende, sono le nostre fragilità, le situazioni di peccato, le nostre inadeguatezze e le nostre incapacità a cambiare. Nascondigli che vogliono allontanarci dallo sguardo del Signore, dalla luce che è Lui e che siamo noi in comunione con Lui. In quanti luoghi della nostra esistenza neghiamo l’accesso a Dio! Luoghi che rimangono così “mondani”, del mondo, sottraendosi alla potenza di Dio, al suo sguardo, alla sua parola e ponendosi come limite invalicabile anche alla potenza di Dio. Ascesi è dunque in primo luogo salire con tutta la nostra esistenza sul “candelabro” dell’amore di Dio, salire sul monte con Gesù, là da dove ci guarda, là dove siede perché noi possiamo avvicinarci a Lui e gustare il suo amore che ci precede e ci genera come “beati”, come “sale”, come “luce”. Sarà mai possibile? No, a me no; a noi no, ma a Dio nulla è impossibile; si tratta di lasciare a Lui il dominio sulla mia vita per vivere la logica del Vangelo che è logica di dono di sé come esigenza di risposta al primo ed unico amore della (nostra) vita. Da questo rispondere e donare che non ha origine in noi e che ci porta oltre noi stessi nasce il dominio di sé e la purificazione del cuore (Papa Francesco, Vultum Dei quaerere, 35).
Ma se tutto ciò non lo compiamo noi e lo lasciamo vedere e compiere in noi da Dio, questa ascesi non ci lascia irresponsabili ed inoperosi, né è da vivere nell’ambito della pura interiorità. Il Signore infatti guarda, attende, incontra non degli individui, ma un “noi” e il suo rivolgersi ai tanti ci costituisce comunità: “beati voi … voi siete sale … voi siete luce …”. Così l’ascesi avviene nella quotidianità della vita fraterna, è il restare accanto al fratello e alla sorella anche là dove ci sono diversità da comporre, tensioni e conflitti da gestire, fragilità da accogliere (ivi). Anche qui potrebbe venire la tentazione di identificare diversità, tensioni, conflitti, fragilità con il moggio che nasconde e non permette alla luce di splendere; tutte queste sarebbero realtà che non centrano con Dio e che da Lui ci separano come la nudità di Adamo di cui vergognarsi e per la quale nascondersi. Del resto noi davanti a diversità, conflitti e fragilità ci sentiamo impotenti; e quando tutto questo ci contraria e ci innervosisce che potere hanno su di noi! Sono moggio che nasconde e situazioni da evitare. O sono forse candelabro dal quale risplende l’amore che ci precede e ci raduna e che ci rende possibile la prossimità e l’accoglienza superando il nostro sguardo ripiegato su noi stessi?
Il popolo di Dio e l’umanità di oggi sono segnati e a volte lacerati da tante divisioni (cfr, ivi). Non può allora risplendere la luce? O dobbiamo forse “salire” sul monte con l’amore che ci precede, ci guarda, ci attende ricreandoci come luce nella realtà in cui viviamo? Sarà possibile? Non a noi se non come risposta all’amore che ci precede e sostiene i nostri passi nella luce.
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