Da una scatola in cantina salta fuori un vecchio, vecchissimo proiettore. Oddio, proiettore è una parola grossa. Trattasi di un tubo in plastica rosso fuoco, con manico e piedini, vano per le pile, lampadina – bruciata! – da 2 candele, e una tremenda lente di plastica anch’essa, graffiata e rigata, dietro alla quale una feritoia consente il passaggio a una striscia di cartoncino: vi sono incastonati foglietti (di plastica) trasparenti, che potrebbero ricordare le primissime diapositive, con disegni approssimativi che raccontano una storia. La striscia di cartone si fa passare lentamente tra lampadina e lente, e sul muro bianco fioriscono le scene: statiche, ovviamente, ma coloratissime. Era il nostro cinema casalingo, quello che potevamo gestire noi bambini.
Ma io ricordo molto più vivamente una scatoletta blu acquamarina, pesantissima perché di ferro, con una scritta, LUX, sul fianco, che era davvero capace di proiettare brevissimi filmati. Quella, la potevano usare solo i grandi, perché la lampada interna era delicatissima. Le pellicole in bianco e nero erano strisce lunghe una ventina di centimetri, tipo negativi delle foto: riportavano primitivi disegni animati, disposti su due righe, una sopra l’altra. Quando giravi la minuscola manovella, la parte bassa si copriva, poi al giro successivo si copriva la parte in alto, e così l’illusone del movimento era perfetta. La durata era però un pochino limitata, diciamo una ventina di secondi…
Poi ci regalarono il Master View: che meraviglia! Una sorta di binocolo squadrato con una levetta a destra, e una serie variegata di dischetti con piccolissime diapositive disposte a coppie, come i numeri di un orologio, da inserire nell’alloggio apposito: a ogni scatto della leva, il fotogramma cambiava e la duplice visione dava l’idea della profondità, fossero disegni o fotografie. E non dovevi nemmeno appendere il lenzuolo al muro, per poter vedere bastava la luce del sole. Una sorta di 3D ante litteram, insomma. L’inconveniente era che non si poteva gustare lo spettacolo in compagnia, a meno che non ci fosse un Master View per ciascuno.
E infine venne il vero e proprio proiettore, con tanto di motore elettrico, le bobine da infilare sui perni, una scelta invidiabile di cortometraggi, da Tom e Jerry a Topolino, dalle fiabe ai western. Tutto in miniatura, ovviamente, tranne il rumore, degno di una vera e propria macchina professionale. Il film essendo muto, il ronzio assordante non disturbava più di tanto la visione, ma c’è un limite a tutto. Così papà fece aprire un buco circolare nel muro tra camera e soggiorno, per attutire il fracasso: dietro ci stava il proiettore, davanti il pubblico. Unico sacrificato, il cineoperatore di turno: che, essendo il possessore dell’aggeggio, era giustamente mio fratello.
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