Ci sono episodi che fissano in ciascuno un confine indelebile tra un istante prima e un istante dopo e che entrano a costituire i quadri della memoria collettiva. Situandosi di nuovo su quel confine, ognuno potrà indagare i criteri trascorsi che hanno dato un ordine alle percezioni.
Ho dei ricordi molto precisi, scanditi da una sequenza di nitidi fotogrammi. Quella mattina entravo in classe alle 11. Ero partito da Gallarate, avevo ritirato i giornali da Vescovi, ero passato a salutare mia madre, mi ero cambiato, avevo preso un libro sul positivismo come ruota di scorta per la lezione e avevo raggiunto la allora nuova sede del Liceo Scientifico, dall’entrata di via Sorrisole poi chiusa per un difetto strutturale nella copertura della palestra. Non avevo pensato alla politica in un mattino che si annunciava storico: la nascita di un governo inedito, imperniato sulla DC e sull’astensione attiva del PCI. Quell’accordo fino al giorno prima non convinceva e non fugava l’incertezza che da anni gravava sull’Italia.
Arrivai che ero ignaro di tutto. Quando ho visto centinaia di studenti sui gradini e ai bordi della via ho pensato a una manifestazione come tante in quegli anni. Il tempo di scendere dall’auto e mi trovo circondato da un gruppo di studenti che mi aspettano e mi chiedono «Dica qualcosa, per favore». Vedendo il mio stupore, uno di loro mi dice: «Non lo sa? Hanno rapito Moro!». Sono rimasto interdetto, sconcertato. Non so dire se lo stupore sia stato più forte dell’emozione, del brivido di paura che è corso lungo la schiena. Le parole non sono arrivate subito.
Quella quinta era una classe politicamente e culturalmente eterogenea: le ragazze più radicali, sensibili ai temi femministi; i maschi per lo più ciellini, i restanti a sinistra ma non direttamente impegnati. I due che mi avevano chiesto aiuto erano assortiti proprio così. Per una singolare sincronia, hanno entrambi atteso che mi tornasse la parola. Dal mio arrivo non erano passati più di due minuti. Quanto bastava per un brusco cambio di percezione. Mi risveglio e chiedo ulteriori informazioni. Colgo un disorientamento e una paura che sono anche miei. Gli studenti più grandi sono usciti per mostrare da che parte stanno, per discutere e provare a capire; solo i pochi esponenti dei gruppi estremi di destra e di sinistra sono rimasti nelle classi.
Prendo il megafono e parlo a braccio. Contrariamente alle mie abitudini me la cavo in pochi minuti. Cerco di demolire lo slogan sostenuto da molti «neutralisti»: «Né con lo Stato né con le BR». Le BR hanno dichiarato guerra alle istituzioni. È dovere di tutti scegliere lo Stato e sostenere i bersagli politici del sequestro: il nuovo governo e le forze che quell’accordo avevano consentito. Le prime a dover combattere a viso aperto le formazioni terroristiche o violente sono le sinistre non estremiste.
Non erano pensieri nuovi. Fin dal caso Sossi, nella cerchia ristretta dei miei amici ci eravamo convinti che le BR fossero un nemico uscito dall’«album di famiglia», e che la dietrologia che faceva delle BR uno strumento delle trame e controtrame di poteri oscuri, era un alibi. Nuova era la volontà di rispondere al pericolo con un’unità nazionale estesa. Il rapimento Moro seppellì i pedantismi ideologici, i distinguo bizantini, gli accademismi metodologici che avevano afflitto la galassia delle minuscole forze alla sinistra del PCI. Vennero meno i feticci identitari. L’approccio alla politica si laicizzò: la politica divenne quel che è, un enigma irrisolto che consente giudizi e orientamenti chiari solo a posteriori, quando spesso la frittata è fatta. Per me fu il compiersi fulmineo di un lungo riorientamento biografico.
Ero il solo insegnante a essere fuori con gli studenti. Ho passato il resto della mattina a parlare con i vari capannelli, ad ascoltare i sentimenti, inclusi i miei. Finalmente arriva qualche insegnante, con alcuni autorevoli «grandi vecchi». Ho sentito sbocciare un legame fatto di passioni condivise nell’ora più tragica che in 30 anni avessi vissuto. All’una sono tornato a pranzo da mia madre, agitatissima e preoccupata. Ho chiamato la mia compagna, i miei fratelli, qualche amico. Se non ero attaccato al telefono, ero attaccato al televisore e alla radio. L’emozione e la voglia di risposta soverchiava l’analisi. Avevo avuto la stessa percezione solo una volta prima di quel giorno, la sera del 13 dicembre 1969, nell’aula al piano terra dove normalmente faceva lezione Parinetto: eravamo un centinaio e fu immediato decidere di partecipare ai funerali e di contribuire al presidio vigile e pacifico della città. Ma in quelle ore del 16 marzo l’emozione si tagliava con il coltello tanto era fitta.
Il 17 marzo ci fu a Milano una manifestazione – la sola che ricordi di quei 55 giorni. Di nuovo il pensiero torna a piazza Fontana, ai funerali in piazza Duomo, all’austera severità di un popolo forte, innervato, teso, vigile come può essere un centometrista in attesa dello sparo. Un’intensità di sentimenti che era tanto densa da lasciare appiccicate, almeno al momento, le divergenze politiche sulle valutazioni e sul da farsi.
Quei giorni scorsero lentissimi. Qualunque cosa si facesse, chiunque si incontrasse o si sentisse, il pensiero finiva sempre lì: «E Moro? È successo qualcosa? Come andrà a finire?». Ogni giorno l’angoscia, la tensione cresceva, ma cresceva – inatteso – anche il sentimento di una coesione superiore alle divergenze politiche tra fautori della trattativa, fautori di una mediazione esterna e fautori della fermezza.
Cominciarono ad arrivare le «lettere dal carcere» di Moro: scritte in codice, ma quasi sempre con una sincerità diretta che colpiva. Un grande politico scende sulla terra e diventa uomo. Un papa rigoroso e timido – forse nel discorso pubblico più alto che mi sia capitato di ascoltare – prega «gli uomini delle Brigate Rosse» di liberare unilateralmente «l’amico» detenuto. Il dibattito politico mostrò per la prima volta una DC in ginocchio, divisa. Il PCI era più temprato a sostenere unitariamente le tragedie collettive, o almeno quelle della propria parte, e mostrò allora una lealtà verso lo stato e le sue istituzioni di tale forza da costringere anche la DC, i partiti minori, molti organi di informazione e pezzi larghissimi di opinione pubblica a mantenere salda la linea della fermezza. Solo Craxi giocò una partita tutta sua con la consueta spregiudicatezza.
Tutti fummo partecipi del dramma. Le lacrime, il groppo in gola, i brividi, la somatizzazione dell’angoscia divennero la colonna sonora quotidiana di quel dramma, di quello stillicidio che ammetteva poche speranze e tanti presagi sempre più negativi.
Finché durò, la condivisione fece intravedere un popolo unito dalla gravità dell’ora, dal rifiuto del terrorismo e della violenza, dall’apprensione per il futuro e dall’ammirazione per un uomo che si batteva da solo, dal fondo di un antro e sull’orlo dell’abisso, scrivendo lettere per cercare di salvare la sua vita e potersi dedicare non più alla politica ma alla sua famiglia per curare lo strazio patito e accompagnare i suoi membri più fragili. Eravamo parte di una comunità nazionale unita, e però restammo anzitutto degli spettatori. I sentimenti erano palpabili, la voglia di fare qualcosa era grande, si sperava che la fermezza popolare potesse piegare la logica omicidaria dei brigatisti. La capacità di fuoco delle BR, le divisioni interne alla DC, il persistere di piccole sacche di connivenza, la paura di fare dei danni con un appello alla mobilitazione e la vergognosa nullaggine del servizi di sicurezza annichilirono la capacità popolare di dare risposte efficaci in termini di contrasto diretto. Il pallino restò in mani conservatrici.
Quando il cadavere di Moro fu trovato in via Caetani vennero ore e giorni di lutto. La commozione si lasciò andare. Il delitto fu l’inizio della fine delle forze terroristiche e dell’estremismo che ne era il bagno di coltura. Nelle fabbriche la soggezione fu messa da parte. La necessità di cooperare con le forze dell’ordine vincendo l’attendismo e la paralisi divenne un imperativo. Lo stato e la democrazia si salvarono. I salvatori si riassumono in due nomi: Gian Carlo Caselli e Guido Rossa. Nondimeno nulla cambiò. L’esitazione lasciò il posto a contrasti sempre più aperti. Tornarono le divisioni. La situazione politica imboccò una via involutiva. Il 1980 portò a una frattura sociale irreversibile. Il lavoro cambiò forma. Iniziò quel declino dei partiti che condusse alla Seconda Repubblica.
Il diffuso sentimento di un’appartenenza a una comunità e a un sistema istituzionale esposti a una minaccia mortale non quagliò quanto avrebbe potuto e non tornò mai più. Quarant’anni dopo siamo preda di convulsioni persino più pericolose, sia pur disarmate. L’Italia è divisa. Il sentimento nazionale riaffiora in modo perverso come pretesa di sovranismo in contrapposizione all’Europa e ai soggetti più deboli tra i deboli, deboli contro più deboli. Gli imprenditori politici della demagogia seguitano a guadagnare consensi. L’unico sentimento condiviso è l’odio, non certo l’apprensione per le sorti della democrazia o la pietà per un uomo dolce e innocente. O troveremo un motivo di coesione intensa o ne usciremo malconci, anche se non troveremo più il cadavere di una vittima abbandonato nel centro di Roma nel bagagliaio di una R4 rossa.
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