Il centro-destra ha subito il 4 marzo una vera rivoluzione tra geografia, leadership e mutazione genetica uscendone molto diverso da prima. Con Matteo Salvini non ha vinto solo la Lega, ma un altro modo di concepire I rapporti all’interno della alleanza e nella quale se Giorgia Meloni può ancora legittimamente giocare un ruolo da comprimaria, Silvio Berlusconi appare sconsolatamente relegato in panchina.
Il Cavaliere infatti non può attaccarsi molto al concetto che non era lui il candidato visto che ha condotto in prima persona tutta la campagna e il suo nome era ben vìsibile nel simbolo di Forza Italia. Chissà se invece – almeno dentro di sé – Berlusconi si sia finalmente reso conto della necessità di passare la palla, magari proprio a Tajani.
Per carità, nella società “Centro Destra s.p.a.” Forza Italia conta ancora il 40% delle quote, ma il controllo della ditta è passato agli altri soci che oltretutto rispetto a Berlusconi hanno ancora davanti una vita (non solo politica) tutta da spendere.
Questo del passaggio generazionale è stato il secondo aspetto rivoluzionario del voto: al netto delle candidature incrociate che hanno permesso il salvataggio di (pochi) ex colonnelli, l’età media degli eletti leghisti (e di Fratelli d’Italia) rispecchia quella dei rispettivi leader, mentre – con poche eccezioni – Forza Italia è decisamente datata, anche se – avendo presumibilmente raccolto anche il voto di molti pensionati – è in fondo una rappresentazione veritiera del proprio elettorato.
Ma la terza, grande e decisiva novità è l’inedita collocazione territoriale di una coalizione di cui la Sicilia è paradigma passando dai 61 mitici collegi (a zero) del PDL sul centro-sinistra di pochi anni fa all’opposto di zero eletti nei collegi maggioritari dell’Isola passati tutti ai 5 Stelle. Questo è avvenuto anche in termini di voti e non solo di seggi, a dimostrazione che la protesta si è riversata tutta sui grillini, veri vincitori in tutto il centro-sud.
Crolleranno quindi anche gli equilibri interni a Forza Italia – che era un partito “lombardo” ma anche “sudista”, espressione di un mondo borghese tradizionalmente ostile ai cambiamenti – che si troverà in difficoltà in una alleanza tutta a trazione settentrionale, ma dove la Lega ha raccolto anche il voto convinto del mondo produttivo.
Una Lega che ha stupito conquistando interessanti quote di voti anche al centro-sud, il che significa che la Meloni non ha intercettato che una parte dell’ex elettorato di Alleanza Nazionale (al sud tradizionalmente più vasto che al nord) anche se Fd’I ha quintuplicato i suoi gruppi parlamentari, il che certamente non è poco.
Le cartine d’Italia con i colori degli eletti – quasi tutte colorate di blu al nord, con pochi sprazzi di rosso al centro e clamorosamente arancione al centro-sud – sono quindi la visibile, plastica immagine di un paese trasformato, ma anche spaccato in due in un confronto che non è destinato a finire.
Il successo della Lega (che – ricordatevi – sul simbolo non si chiamava più “Lega Nord”, anche perché Salvini si è speso moltissimo per darsi una connotazione nazionale) è comunque anche – o soprattutto – una rivoluzione di sensibilità, di obiettivi, di priorità.
Ora il centro destra è molto più sbilanciato “a destra” di prima, come confermato dall’evaporazione della “quarta gamba” di Fitto e dall’analogo flop della Lorenzin sul fronte opposto.
Non ne saranno troppo contenti in Europa, anche se Salvini (come del resto Di Maio) ha abbandonato da tempo i toni da crociata per scegliere il fronte delle rivendicazioni nazionali all’interno dell’Unione, ovvero un tema assolutamente condivisibile dopo le “magre” di questi anni e sui quali dovremo giocare una partita doverosa e interessante.
Ultima nota da non trascurare: Fontana è diventato presidente lombardo con un margine amplissimo ma l’unica sconfitta il centro-destra l’ha subita nel Lazio dove ha corso diviso: un segnale in più che per vincere bisogna raggrupparsi e chi si divide paga, sinistra docet.
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