Diceva Goethe che la gentilezza è la catena d’oro con la quale la società viene tenuta insieme.
E ha scritto una ragazza qualunque in un forum dedicato all’argomento: in quest’epoca fortemente autodistruttiva bisognerebbe ammalarsi di gentilezza per salvarsi la vita.
È proprio così? Sicuramente se le maglie della catena fossero armoniosamente agganciate tra loro vedremmo una società salda, solidale, capace di stare davvero insieme, di cooperare per il bene di tutti senza subire gli strappi inquieti dell’insofferenza. Non è un caso che il 17 novembre di ogni anno, a partire dal 1997, si celebri nel mondo la giornata della gentilezza: così come diversi libri sull’argomento sono stati pubblicati, e corsi di insegnamento sul tema si tengono in diversi atenei universitari dove si è propensi a credere che la forza della gentilezza potrebbe salvare il mondo.
Allora pensiamoci, perché troppa intolleranza ci circonda, oramai, da ogni parte: e quanta incapacità di creare armonia, collaborazione, rispetto!
Le recenti elezioni politiche hanno rappresentato un significativo banco di prova che ci ha lasciato in bocca non il sapore dolce della gentilezza, ma quello amaro di una incattivita esibizione -vocale e muscolare- di scarsa educazione, d’irriguardoso confronto con l’altro.
Certo non è una novità, è storia già registrata dai tempi più lontani.
Ma va da sė che se lo stato di benessere generale di un paese, cioè quello materiale e morale insieme, dovesse, come sarebbe utile, venir misurato anche da un termometro tarato sulla gentilezza -cioè sulle doti dell’umanità e della collaborazione, porte con attenta sensibilità – il nostro Paese finirebbe, ancora una volta, nel fanalino di coda.
Cosa non si è visto, e cosa non si è sentito, prima e dopo il 4 marzo?
A molti elettori in fila per votare, anche a chi scrive, è capitato di assistere a inutili polemiche -voce alta e toni stizziti- nei confronti degli scrutatori, impegnati in procedure che richiedevano più tempo del solito.
E, a parte i veri e propri insulti, oltraggiosi messaggi girati sul web, alla vigilia della consultazione, con salaci, e non di rado volgari, commenti nei confronti dei contendenti, le valutazioni post elettorali hanno rivelato e confermato, come prima più di prima, che non ci siamo proprio: perché non ci amiamo affatto tra noi.
Non solo tendiamo a non voler avvicinare, a priori, le idee e le opinioni degli altri, ma, una volta conosciuto il responso delle urne, persistiamo nel tentativo di ignorare le scelte emerse, disconoscendone i risultati e le indicazioni. Tutto questo riguarda l’uomo della strada, ma non soltanto lui: vogliamo allargare lo sguardo ai commenti, spesso animosi, di autorevoli esperti, commentatori, opinionisti, giornalisti e, naturalmente, degli stessi politici?
A proposito di questi ultimi Il malcostume, prettamente italiano, è di sentirsi tutti vincitori – basta pensare a quanti premier si sono già autoproposti, da Di Maio a Salvini, a Tajani, che lo ha chiesto per tramite di Berlusconi. E se poi non si è realmente vincitori lo si diventa “virtualmente” e questa è storia antica -vista da sempre in Italia- così che la realtà aumentata, gonfiata dall’autostima partitica e individuale, porta a non voler concedere nulla all’avversario “sconfitto”. Sul quale pare invece opportuno far ricadere anche le altrui colpe, attribuendogliele come fossero diretta responsabilità del suo insuccesso.
Molto apprezzabile, del tutto rara e in controtendenza l’uscita di Calenda, mentre correva a iscriversi al PD: “Nelle sconfitte bisogna avere il senso della dignità e dell’onore”. Una perla di saggezza che merita grande rispetto, almeno quanto il secco diniego di Renzi a mettersi con chi, fino a prima, aveva snobbato il suo partito.
Abbiamo assistito poi ultimamente a dibattiti televisivi consistenti in veri e propri accerchiamenti verbali nei confronti di partiti e candidati, già dati per perdenti a priori. Così come ad esaltazioni incomprensibili di chi non ha saputo frenare gli entusiasmi, nonostante la situazione di evidente impasse frutto di un cimento elettorale che alla fine non ha assegnato lo scettro a nessuno.
Esaltate sono apparse a tratti anche la sfrontatezza e la tracotanza, indirizzate a bersagli politici e sociali precostituiti: si sa che ogni momento storico, e questo non vale solo da noi, ha i suoi capri espiatori sui quali la società avvertita spesso si esercita a sparare ad alzo zero. Ma non è, non lo è mai stato, un bel gioco.
Perché se la catena d’oro della gentilezza -elemento niente affatto superfluo- si strappa, il rischio, per un paese che già fa fatica a stare in piedi, ė proprio quello di cadere tutti insieme.
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