La parola democrazia – credo che lo si insegni anche ai bambini delle elementari – significa governo o potere del popolo, e deriva a sua volta da due parolette greche: démos (popolo) e kràtos (potere), appunto.
Sicché oggi, ma probabilmente da sempre o da gran tempo, tutti i Paesi amano definirsi democratici, a scanso di equivoci. Per poi mettere i puntini sulle i. Lo fa anche la nostra Costituzione che nel suo articolo 1 esordisce: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Per poi precisare subito dopo, al secondo comma: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Si tratta dunque di una democrazia ma – se è consentito un piccolo gioco di parole – abbastanza formale e limitata. E proprio dalla Costituzione.
Stiamo sempre a quanto accade in Italia. La democrazia, fino a prova contraria, si esprime con il voto, manifestato oggidì ma non da tutti i cittadini aventi diritto (per disinteresse, per protesta, per qualsivoglia altro motivo) e sin dall’inizio con qualche limite del resto anche comprensibile, come quello dell’età: per esempio riguardo la nomina dei senatori (non si capisce più bene il perché e in effetti la proposta di riforma di quindici mesi fa voleva eliminare tale condizione), dato che questi vengono eletti soltanto da coloro che hanno compiuto i venticinque anni; mentre i deputati e gli altri politici rappresentanti del popolo (Regioni e Comuni) sono eletti dai diciottenni, cioè dai cittadini che secondo la norma in vigore dal 1975 hanno raggiunto la maggiore età; tutti gli altri – i diciassettenni e i sedicenni che pure frequentano i licei con buon profitto, che possono guidare le motociclette e stare nelle accademie militari – zitti e a casa.
Non ci sono soltanto questi limiti. Dato per scontato che nell’esercizio di sovranità della vita pubblica non è possibile un’assemblea generale di cinquanta milioni di individui (né di un milione, né di centomila, esempi di democrazia popolare e assembleare dunque), si passa alla “democrazia rappresentativa”. Gli aventi diritto eleggono i loro rappresentanti: nel nostro caso quasi un migliaio, 630 deputati e 315 senatori, più i cinque di nomina presidenziale (a vita) e gli ex-presidenti della Repubblica, senatori di diritto anch’essi fin che campano. Ma – si badi bene – la nostra non è solo una democrazia rappresentativa, è anche una democrazia indiretta. Nel senso che il cittadino non elegge il capo dello stato, non elegge il capo del governo, non elegge i ministri, né i giudici della Corte costituzionale o del Consiglio di Stato. Non solo: il cittadino non elegge nemmeno i magistrati, né inquirenti né giudicanti, i quali come afferma la Costituzione entrano in carriera con concorso pubblico (valutati da altri magistrati) e vi rimangono a lungo, godendo del potere più forte e significativo della nostra società e della nostra vita: quello di giudicarci sulla base delle leggi, di assolverci ma anche di condannarci togliendoci il bene più prezioso, la libertà. E sempre “in nome del popolo italiano”, cioè noi, e anche se qualche volta si possono sbagliare. Perché, si sa, errare è umano.
Date queste circostanze, è abbastanza singolare che ai “democraticissimi” partiti (così come nel famigerato ventennio c’erano i “fascistissimi”) venga l’orticaria nel sentire che la Costituzione nel suo articolo 67, proibisce il cosiddetto “vincolo di mandato”. Cioè: una volta eletto, il deputato o il senatore che sia, è il rappresentante di tutta la Nazione – è scritto proprio così: Nazione – e non soltanto della casacca che ha indossato per entrare in Parlamento. È una garanzia oserei dire quasi minima della democrazia rappresentativa, altrimenti balzerebbe all’occhio di chiunque l’inutilità di portare a Roma un migliaio di rappresentanti, quando ne basterebbero un centinaio e anche meno a coltivare proporzionalmente il proprio orticello, alzando o abbassando la mano a comando.
Questo delle persone da eleggere e degli eletti è uno dei temi più speciosi di ogni campagna: chi è degno, chi no, chi ciurla nel manico… Le sorprese (prima e dopo) sono sempre dietro l’angolo. Ricordando per l’ennesima volta un aforisma di Winston Churchill (“È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”), molti studiosi e esperti stanno a lambiccarsi il cervello per indicare la strada migliore che possa portare a una rappresentatività idonea, onesta, omogenea.
Qualcuno – come per esempio il saggista belga David Van Reybrouk, in un volumetto pubblicato qualche tempo fa da Feltrinelli intitolato “Contro le elezioni”– ha ipotizzato addirittura un’estrazione a sorte tra un elenco di candidati.
Last but not least v’è il problema della maggioranza e della Verità (scritta con la maiuscola), e quindi del rapporto con la minoranza. In una democrazia la maggioranza numerica vince, e non è detto che vinca con buone ragioni che spesso invece possono appartenere alla minoranza. Anche Gesù, come si racconta nel Vangelo, sballottato tra il sinedrio e il sommo sacerdote e alla fine posto da Ponzio Pilato a confronto con un assassino (Barabba), fu mandato a morire crocifisso da una maggioranza, imperturbabile. Il famoso detto volterriano e liberale: Io non sono d’accordo con te ma mi batterò fino alla morte perché tu possa esprimere la tua opinione, raramente si vede praticato. Le maggioranze, rispetto alle minoranze, ripropongono l’atteggiamento poco ortodosso di un comico di Zelig, l’etologo “professor Ornano”: Devi morire, schiacciato come un verme, miserabile! Fino a elezioni successive, si spera.
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