Les années 68. Gli anni 68. Così si intitolava una raccolta di saggi uscita in Francia nel 2000. Questo ricco e denso volume raccoglieva i risultati di un seminario di studi durato tre anni, che aveva avuto luogo presso l’Institut d’Histoire du Temps Présent. Il titolo del seminario era giustificato dall’idea di collocare gli avvenimenti che caratterizzarono il 1968 entro una più lunga durata, compresa tra gli anni 1962 e 1981. Questa diversa prospettiva storiografica, per la quale parlare del ’68 vorrebbe dire affrontare l’esame di un più ampio ciclo storico, è oggi condivisa da molti studiosi (per esempio dall’italiana Anna Bravo nel suo A colpi di cuore. Storie del sessantotto, del 2008). Il fenomeno della contestazione antiautoritaria, che ebbe come protagonista la cosiddetta «prima generazione» (la prima generazione che entrava nella società dei consumi di massa e che godeva delle opportunità offerte dal nuovo ciclo economico) e che ben presto assunse una dimensione mondiale, andrebbe quindi spiegato a partire dalle mutazioni sociali e culturali, che si manifestarono sin dall’inizio del decennio.
In Italia, sin dalla fine degli anni Cinquanta si registrarono segnali di una diffusa insofferenza giovanile. I giornali ufficiali ne attribuirono la responsabilità di volta in volta ai flippers, che facevano perdere tempo e denaro, e ai juke-box, che, diffondendo i versi degli urlatori (come l’Adriano Celentano del Tuo bacio è come un rock), immetteva «in cervelli non ancora resistenti agli urti, rumori deleteri gabellati come musica» (così «La Stampa» di Torino, nel novembre del 1959).
L’Italia era del resto più resistente ad ogni novità: sui costumi del nostro Belpaese gravava la pesante eredità del Ventennio fascista e vigilavano, con severità, la Democrazia cristiana e la Chiesa cattolica.
Alla metà del decennio, fece la sua comparsa nelle grandi città italiane una delle manifestazioni più evidenti ed allarmanti dei nuovi stili e nuove mode adottati da un insondabile universo giovanile. La beat-generation (come fu chiamata allora) iniziò ad ostentare pericolosissime e vistosissime chiome fluenti. Erano arrivati i capelloni. Anche questa fu una moda importata dall’estero. In particolar modo dalla Gran Bretagna, dove già era esploso il fenomeno dei Beatles. I quattro fenomeni di Liverpool arrivarono in Italia proprio all’inizio dell’estate del 1965, per esibirsi a Milano e a Roma. Così li descrisse la rivista «Il Ponte», di Piero Calamandrei:
«quattro famosi […], con le loro gambe a compasso, le loro non-fronti, i loro grassi e spessi capelli, e quell’aria di gaglioffo uscito da una novella del Boccaccio o del Sacchetti, di pecorone sceso in città in tempo per farsi raggirare il cervello dai furbi».
L’Italia, anche nelle sue punte più avanzate e progressiste, non era evidentemente ancora pronta a tanta novità…
E infatti quando questi benedetti capelloni iniziarono a moltiplicarsi e ad occupare spazi pubblici solitamente dedicati alla passeggiatina domenicale (a Milano sostavano tra Piazza Duomo e il Cordusio; a Roma in Piazza di Spagna), crebbe l’allarmismo. La stampa governativa iniziò ad invocare fogli di via per quegli stranieri ritenuti responsabili di importare da noi questa pericolosa moda; reclamò disinfestazioni e rasature forzate, per ripulire le strade e le teste (dentro e fuori). In più di un’occasione, militanti neofascisti si diedero alla caccia degli zazzeruti.
Il «Corriere della Sera» così descriveva (siamo nel 1965) i giovani che, ben chiomati, sostavano sulla scalinata di Trinità dei Monti:
«I “capelloni”, come li chiamano qui a Roma, sono quei tipi, di apparente sesso maschile, che portano capelli lunghi quasi come le donne, fluenti sulle spalle, talvolta con vezzosi riccioletti sul davanti: secondo una moda mutuata dai Beatles, i quattro giovanotti che l’Inghilterra, anziché premiare come recentemente ha fatto, avrebbe dovuto, per rispetto della propria reputazione, esiliare in Patagonia.»
Il giornalista proponeva poi una soluzione:
«Non esiste una legge che vieti di sedere sulla scalinata, e anche di stendervisi. Non esiste una legge che vieti di lasciarsi crescere i capelli a volontà, se non la legge del buongusto, la quale non è scritta, e non prevede sanzioni. Rientra fra le libertà dell’individuo quella di vestirsi come gli pare, anche quasi da cow boy, anche da apache. Però occorre ugualmente disinfettare la Trinità dei Monti dai “capelloni”.
Come si può fare? L’idea potrà sembrare liberticida; e potrà anche meritare la considerazione di “istigazione al reato”. […] [Bisognerebbe] andare lì, armati di civismo, di insetticida e di forbici. O si lasciano disinfestare e tagliare i capelli, e allora il problema è risolto; o reagiscono, ingaggiano rissa, arrivano le guardie ed è risolto lo stesso.»
Questo clima di ostilità, sostenuto da una buona dose di ottusità e bigottismo, fece inorridire qualche (raro) intellettuale nostrano. La scrittrice Elsa Morante, che nel 1965 aveva 53 anni, pensò bene di scrivere una lettera proprio al «Corriere della Sera»:
«Ritenevo per certo e indubitabile che in Italia, Paese di civiltà democratica, ciascuno fosse libero di pettinarsi e vestirsi come meglio crede, salvo oltraggio alla decenza. E onestamente non vedo nessun oltraggio di tal genere nella foggia dei capelli lunghi e del vestiario dimesso e senza cerimonia […]. Ora, invece, si legge sin questi giorni, su vari giornali, di un recente provvedimento che inviterebbe i tutori dell’ordine in Roma, a fermare tutti coloro che si mostrino in siffatta tenuta (indicati sotto il termine comune di capelloni) come sospetti di essere stranieri indesiderabili, vale a dire, (in mancanza d’altre imputazioni) poveri di valuta. La notizia, oltre a stupirmi, mi preoccupa […]».
Le preoccupazioni di Elsa Morante restarono ovviamente inascoltate. Di lì a poco, nel 1968, gli italiani avrebbero potuto ridere di gusto di un Totò, che nell’episodio Il mostro della domenica, per la regia di Steno, compreso nel film Capriccio all’italiana, andava in giro per Roma sequestrando capelloni e rapandoli a zero. Il mostro, il sequestratore che esercitava l’uso moralizzatore delle forbici, benché arrestato sarebbe stato poi assolto. Viva l’Italia.
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