Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

L'intervista

“IO, MORO, LE BRIGATE ROSSE”

MASSIMO LODI - 09/03/2018

zamberlettiGiuseppe Zamberletti, varesino del Sacro Monte, 84 anni, parlamentare per quasi ventisei, più volte ministro, uomo della provvidenza statale nel Friuli e nell’Irpinia terremotati, fu due volte sottosegretario in governi presieduti da Aldo Moro che lo scelse anche per altri incarichi di rilievo. Oggi, a quarant’anni dal rapimento del grande leader democristiano, i ricordi degl’indimenticati trascorsi di frequentazione politica e dell’incubo che durò dal 16 marzo al 9 maggio del ’78, si fanno d’un profilo ancora più netto e struggente. Specie quando Zamberletti rammenta che il suo amico Cossiga gli chiese di tenersi pronto per un contatto  con le Brigate Rosse, o con chi delle Brigate Rosse poteva esser voce referente, allo scopo di liberare l’ostaggio. Cossiga, allora ministro degl’Interni, gli prospettò l’eventualità d’una delicatissima missione e Zorro (nome in codice da radioamatore)  diede il suo consenso e si preparò al possibile incontro. Che però si fece attendere invano.

-Zamberletti, che uomo politico era Moro? I più si son fatti l’idea d’un tipo molto astratto, poco decisionista, troppo innamorato del compromesso…

“ Ho avuto esperienze che dimostrano il contrario. Prendiamo il decisionismo. Fu lui a nominarmi commissario straordinario in Friuli. Andò sul posto subito dopo il terremoto, prese atto dell’immane disastro, chiamò vicino a sé Cossiga, titolare degl’Interni, e gli comunicò che la persona giusta da mandare lassù ero io. S’era fatto di me l’opinione d’un tipo di dinamico pragmatismo al tempo in cui ero stato suo sottosegretario alla protezione civile e alla polizia. E a quell’opinione diede seguito senza indugi nel momento dell’emergenza”.

-Le lasciò fare, dava indicazioni, chiedeva riscontri…

“Mi chiamava ogni mattina sul presto, voleva saper tutto su ogni aspetto della situazione. Tra l’altro, dato il periodo di campagna elettorale, il livello di guardia era, se possibile, ancor più alto. La situazione sanitaria, ad esempio, lo preoccupava parecchio. Per spronarmi alla massima allerta, ed amando egli ricorrere a qualche battuta per stemperare le tensioni, una volta mi disse: “Ricordati che un caso di tifo per la stampa diventa un’epidemia di colera”. Ne tenni conto”.

-Dunque un uomo attento ai problemi reali, a garantire efficienza…

“Non trascurava nessun particolare. Ed era esigentissimo. Una domenica venne in visita a Udine e io, con qualche imbarazzo, osai dirgli: “Presidente, tra poco si vota e non sono andato neppure una volta nel mio collegio. Avrei intenzione di farlo qualche giorno prima delle elezioni…”. Non mi lasciò finire. “Stai tranquillo” replicò con aria divertita. “Per male che vada, ti faremo senatore a vita”. Non fu necessario”.

-Passiamo all’anno orribile. Dov’era lei il primo mattino del 16 marzo?

“Ero a Montecitorio per votare la fiducia al governo Andreotti che s’insediava. E là seppi del sequestro, in un clima drammatico e spettrale. Si coglieva la sensazione d’una classe politica alle corde, assediata, confusa”.

-C’era la paura d’una resa alla rivoluzione armata?

“C’era. E fu per questo che lo Stato scelse la strada della fermezza. Non poteva accettare di scendere a patti con i terroristi”.

-Anche lei la pensava così?

“Anch’io. Con l’angoscia nel cuore, perché di mezzo c’era la vita d’una persona, d’un amico. Ne parlavo spesso con Pertini, che aveva fatto il presidente della Camera e poco più tardi sarebbe divenuto presidente della Repubblica. Era furibondo con Craxi, che voleva la trattativa”.

-Ne parlava anche con Cossiga?

“Sì, di frequente. Non avevo incarichi nell’esecutivo, ma, in nome dei precedenti comuni rapporti di collaborazione ministeriale e della vecchia amicizia, m’invitava spesso al Viminale per mettermi a parte di analisi, riflessioni, dubbi. Fu in una di queste circostanze che mi rivelò che forse si sarebbe profilata un’occasione d’attivare un contatto per cercare di salvar la vita a Moro. Chi proponeva l’incontro chiedeva che al colloquio venisse invitato senza scorta un politico. Non potendo lo Stato esporsi in prima persona con un componente del governo, Cossiga aveva pensato a me come a intermediario per avvicinare un non meglio precisato emissario dei brigatisti. E mi disse di rivolgermi al colonnello dei carabinieri Varisco: avrei ricevuto istruzioni”.

-Cosa che lei fece…

“Certamente. Ci parlammo più volte e mettemmo addirittura a punto un piano operativo qualora l’ordine di muoversi fosse arrivato. Lui avrebbe svolto la parte dell’autista conducendomi all’appuntamento. Ma quell’occasione dai contorni così oscuri non venne mai, né Cossiga ritornò più successivamente sull’argomento. Varisco purtroppo avrebbe trovato la morte in un non lontano futuro proprio ad opera delle Brigate Rosse”.

-Si vide o si sentì, in quel periodo, con l’amico e concittadino monsignor Pasquale Macchi, segretario di Papa Paolo VI, che tanto fece per ottenere la liberazione di Moro, arrivando a inginocchiarsi davanti agli “uomini delle Brigate Rosse”?

“No, in quei circa due mesi non avemmo contatti. C’incontrammo, questo sì, poco dopo la morte di Moro”.

-Che cosa le disse monsignor Macchi?

“Qualcosa che appartiene al mio privato: credo si possa comprendere la riservatezza. Posso solo aggiungere che fu una circostanza di profonda tristezza per entrambi”.

-Che opinione s’è fatto delle lettere di Moro dal carcere?

“L’opinione che quando scriveva era in pieno possesso delle sue facoltà”.

-Parte dell’opinione pubblica gli mosse l’accusa di non comportarsi con la dignità d’uno statista…

“Anche uno statista è un uomo che vive sino in fondo le sue emozioni. E se può, le comunica. Come fece lui. Solo chi vien preso dal fanatismo dà luogo a un atteggiamento diverso”.

-Ha dei rimpianti?

“Mi è rimasto il dolore di quell’esperienza. A quarant’anni di distanza dico con rassegnata serenità che la Repubblica commise l’errore di sottovalutare la sua forza. Era davvero così debole da ritenere di dover capitolare se avesse dato una risposta diversa al rapimento del suo uomo politico più rappresentativo? Non lo era. Però, diciamolo: dopo quell’incubo, il terrorismo iniziò a declinare. E alla fine lo Stato vinse la guerra”

-Ha mai incontrato, da allora in poi i familiari di Moro?

“Ho collaborato a lungo col figlio Giovanni, impegnato sul fronte della solidarietà. Una persona eccezionale. Ma non abbiamo mai parlato della tragedia che colpì lui e tutti noi in quella primavera maledetta”.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login