Ancora sui difetti personali e collettivi che caratterizzano il nostro tempo, come l’impazienza: correre per tagliare i traguardi, inseguire il vortice dei cambiamenti, raggiungere nel minor tempo possibile la meta che ci si è prefissati.
La lingua ne ha già preso atto. Assuefatti ad affermare che le cose si svolgono “in tempo reale”, abbiamo inserito nel quotidiano, come parole chiave, gli aggettivi “simultaneo” e “istantaneo”.
Scriviamo una mail e ci aspettiamo un’immediata risposta. Altrimenti, quale sarà il motivo che ha fatto tardare il nostro interlocutore?. Fortuna che ora, grazie a Whatsapp abbiamo riscontri immediati e gratuiti.
Ogni attesa genera normalmente ansia; ma nell’era della tecnologia siamo assillati dall’urgenza di riempire ogni tempo vuoto senza perdere minuti preziosi.
Saremmo affetti da “efficienza compulsiva” che altro non è se non il bisogno di stare dentro al carosello del mondo per realizzare “tutto” nell’arco di un tempo limitato.
Che fatica sopportare il ritornello dei centralini “Si prega di attendere”. Che irritazione l’invito a restare in attesa per non perdere la priorità acquisita; e che nervosismo pensare che non c’è un solo operatore in grado di sveltire i tempi.
Se tengo a bada l’ansia dell’attesa leggendo, mi accorgo di quanto sia nervosa e frammentata una lettura interrotta dal continuo alzare lo sguardo per fare il punto della situazione.
La prolungata fibrillazione dell’uomo contemporaneo stimola la produzione di saggi di filosofi e sociologi sul tema dell’attesa, della pazienza e del suo contrario. Esperti che provano a convincerci che la pazienza regala piacevoli scoperte, a condizione che si sappia sgomberare la mente dai pensieri impazienti per attribuire un diverso peso all’attesa.
Èquasi poetica l’etimologia della parola “attesa”. Chi attende “tende a”, “tende verso”, come ogni uomo capace di rivolgere l’animo “verso” qualcosa di altro, per accogliere significati come ascolto e attenzione.
Il fisico Carlo Rovelli ci spiega che cos’è il tempo: “Mi fermo e non faccio nulla. Non succede nulla. Ascolto lo scorrere del tempo. Questo è il tempo”.
Credo che serva un lungo lavoro interiore per giungere a un tale stato mentale e psicologico; per capire che è necessario “.. rileggere se stessi con verità, riconoscere le proprie impazienze e contraddizioni, per poter fare passi di crescita”.
Non ho dubbi: il contrario dell’attesa, che è legata alla pazienza, è l’impazienza, “la spia di un’emotività sregolata, non elaborata”.
Un autore la chiama “bulimia consumistica che genera anoressia dei valori”, ricordando il Leopardi dello Zibaldone per il quale la pazienza è “la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza eroica”.
Chi lavora in campo educativo conosce il valore dell’attesa e sa che il raggiungimento della maturità avviene solo assecondando i tempi naturali della crescita. Perché “l’impazienza brucia i passaggi, non consente costruzione, impedisce di articolare un cammino che si sviluppi passo dopo passo…”.
Il dizionario etimologico mi ricorda che la parola deriva dal latino pàtior, patire: la pazienza è parente stretta della sofferenza e della sopportazione, della tolleranza e della perseveranza.
Nel linguaggio comune chi attende serenamente “si arma di pazienza”. E chi si arma è per definizione battagliero e non cede alla rassegnazione.
Saper aspettare è una delle poche vere virtù filosofiche che ci restano: parola dei grandi del Novecento.
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